I social network costituiscono, senza dubbio, uno strumento di grande utilità, sia per intrattenere contatti con altre persone che per la diffusione di notizie di pubblico interesse. Non sempre, però, questi mezzi vengono Giustizia-Toghe

utilizzati in maniera appropriata. Le conseguenze, allora, possono essere gravi, con la configurazione, ad esempio, di ipotesi di reato. In proposito, ha fatto molto parlare una recente sentenza della I Sezione della Corte di Cassazione, riguardante il reato di diffamazione. Detto reato, ricordiamo, si realizza nel momento in cui una persona, comunicando con più soggetti, offende la reputazione altrui. Orbene, la Suprema Corte ha ritenuto configurata la diffamazione nel caso riguardante un maresciallo della Guardia di Finanza che aveva, su Facebook, parlato male di un collega pur senza nominarlo.“Ai fini dell’integrazione del reato di diffamazione – ha stabilito la Cassazione – è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone, indipendentemente dalla indicazione nominativa”. Nel caso di specie, in effetti, erano stati forniti particolari, relativi alla persona destinataria delle espressioni offensive, atti ad identificare la stessa. Tanto è bastato, secondo i giudici romani, per configurare il reato in questione, con buona pace di chi credeva di essersi cautelato per il semplice fatto di non avere fatto nomi. La sentenza della Cassazione, c’è da crederci, è destinata ad avere inevitabili ripercussioni sul mondo della comunicazione, segnatamente all’interno dei social network. Attenzione, quindi, a parlare male di una persona pur senza nominarla! L’ipotesi di reato potrebbe configurarsi più facilmente di quanto s’immagini.
Alessandro e Giovanni Gentile

Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 07 ottobre 2015