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L’Italiano, si sa, è una delle lingue più difficili e con più sfaccettature che esistono al mondo. Ma quanto conosciamo davvero la nostra lingua? Molto spesso ci capita di scrivere e di avere qualche esitazione su una parola che sporadicamente usiamo. Ma si scrive “aldilà” o “al di là”, “d’accordo” o “daccordo”, “evaquazione” o “evacuazione”, “taccuino” o “tacquino”, quanti sanno che “latrina” non è un termine volgare e quanti sono consapevoli che la maggior parte delle parole che usiamo derivano da una lingua che tutti definiscono morta che è il latino? Questi sono solo alcuni degli enigmi della nostra lingua ma, quel che è grave, è che la maggior parte degli italiani cura le lingue straniere pur non prestando attenzione alla propria.
Secondo stime recenti è emerso che circa il 71% della popolazione italiana si trova al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura di un testo di media difficoltà. Al che corrisponde un misero 20% che possiede le competenze minime. Di questi, una percentuale quasi invisibile ha piena padronanza della lingua. Una situazione allarmante che dovrebbe suscitare portare ad una presa di posizione da parte della classe dirigente che, invece, sembra essere molto più intenta ad aumentare i tagli nelle scuole cosicché ci siano tantissime ore scoperte, procede con riforme volte ad una sorta di privatizzazione della scuola che limiterebbe il diritto di istruzione solo a chi può permetterselo in modo da avere sempre più gente ignorante e analfabeta da poter manipolare senza dare conto a nessuno. Se nel dopoguerra, fino agli anni Novanta, il livello di scolarità è cresciuto fino a una media di dodici anni di frequenza scolastica per ogni cittadino (nel ’51 eravamo a tre anni a testa), oggi si registra, con il record di abbandoni scolastici, un incremento pauroso del cosiddetto analfabetismo di ritorno, favorito anche dalla dipendenza televisiva e tecnologica. Dunque di cosa ci lamentiamo?
Come ci insegnano i grandi padri della letteratura latina quali Lucrezio, è molto meglio lasciarsi andare ad un’inquietudine interiore che ci spinge in ogni modo ad emergere anzicchè rassegnarsi e cadere nell’ignoranza che ci fa essere succubi di una società corrotta. La lingua è cultura e la cultura non può se non corrispondere al “saper vivere”.
Alessia Rivieccio

Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 21 novembre 2012