Interludio è musica. Ma anche mare che arpeggia sotto le scogliere, nel vento. Anche senza vento. Basta un’onda, basta una voce che giunge dal molo, o dal grumo di lava vesuviana rappresa alla fine del suo Porto-Torre-del-Greco-Scogliera

viaggio eruttivo che si è plasmata nel mare, noi siamo i cittadini di questo evento di ieri, di cento o di mille anni fa. Qualcuno mi disse siamo fatti di lava e di mare. Qui alla marina il disegno di costa come di mano barocca si fa croce e delizia di frequenze amorose, appassionati o abitanti di queste case ne adottano poggi o anfratti, ne fanno compagni delle loro stagioni di sole, ne conoscono rughe e pelle calda trattenuta come in uno scrigno.
lI pescatore del pomeriggio o della sera ne conosce la geografia e i tragitti, nella memoria ha già i suoi sentieri per andare a lu oghi di buona pesca e ritrovarne i doni, ma il mare è incostante, può promettere e non mantenere, non promettere e donare. Il pescatore aspetta la sera, la calata del maestrale, il percorso della luna, lo chiama il punto d’acqua, accerta un appuntamento dalla sua esperienza, dalla storia delle sue puntate. Il pescatore ha fiducia, diventa amico del tempo, della luna, delle stelle. Diventa astronomo di memoria e di stagioni, diventa sognatore di mari e cieli lontani.
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E’ primavera di partenze, è primavera di coralline, di vele, di ’ngegni e di rezzenielli, banchi di corallo sono lontani da qui, sparsi nei Mediterraneo. La corallina con ghirlande di festa parte: sulle alte scogliere salutano uomini e donne, sventolano fazzoletti colorati o bianchi, i gabbiani intonano un canto di augurio, volteggiano in segno di giubilo. Dall’alto dello scoglio nero Nausica soffocata dal pianto dà un’ultima voce verso il suo giovane innamorato. Dovrà attendere, tornerà in autunno. Di sera la sua finestra è illuminata, una luce si riversa e si abbandona tra scogliera e mare, con la buona stagione Nausica imbronciata scenderà scalza ‘‘ncopp’u scuogliero r’a patana” per sentire l’eco franta dal vento come canto notturno del suo uomo andato a curallo, si dice così. Adorna lo specchio della toilette, infila tra vetro e cornice vecchie cartoline che ritraggono il nostro porto con coralline a riposo, la fotografia del promesso sposo, avi trapassati, un biglietto di auguri, una figurella di santo. E’ una specie di larario dove specchiare speranze e preghiere, voti all’ Immacolata o alla Madonna di Portosalvo, ravvia i capelli, un tripudio di onde scure, mentre un giro di sottili collanine circonda il suo bianco collo che si tende come colonna a sostenere un volto di meraviglie. Le arriverà una lettera, una cartolina, rileggerà una cento volte, cercherà nella calligrafia, se anche incerta, segnali e carezze, baci che un giorno qualunque, o come questo, o davanti a qualunque tramonto di un giorno qualunque, inaspettati o attesi o sognati da sempre, si cercheranno. Nausica si riguarda nel mare, di mille colori incantata.

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Sotto gli archi di una casa nel vicolo segnato alle carte amministrative come Vico Pontillo a Cavour, ma nella lingua di intenditori d’archeologia e di storia nostra “plaga del mare seccato”, Nausica non più fanciulla è al bancariello per bucare coralli. Ha raccolto i capelli alla nuca, trattenuti da una forcina d’osso, impugna il fuso che per bucare girerà trattenuto dal palmo della mano protetto da un guscio di noce. Per farlo girare in due contrari versi usa un archetto di cannuccia e filo che funge da correggia, l’acqua gocciola lentamente dal lungo beccuccio di una ciotola di stagno, il corallo potrebbe spaccarsi scaldandosi troppo. Nausica viene pagata a peso, il ricavato è gramo, una giornata china su un bancariello ha poca mercede. Il materiale dato a peso viene pesato al ritorno, a bucatura compiuta. Il pagamento a peso scongiura trattenute furtive, Nausica non ha rubato mai nulla, per vezzo suo le piace dare luce all’orecchio, sa che si riflette negli occhi, che dà bagliori alla sua pelle che ancor più luminosa sfida la luna. Fu all’angolo del vico che Il suo innamorato per la prima volta tentò di baciarla, ella non si volse tanto, il giovane sfiorò la guancia, il collo, l’orecchio con l’orecchino di perla. Dovette attendere il tempo di una fase di luna e danze di malepensieri per esaltarsi sulla bocca di Nausica.

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Tutta la marina di questo paese passa negli occhi dei vecchi saltellando con un balzo e planando sul secolo passato. Quando si sentiva soltanto il battere di un triangolo di tela che mutando rotta chiedeva vento sull’altra guancia.
Portosalvo era un grappolo di case abbarbicate sulle rocce laviche, le barche avevano attracchi di fortuna. Poi i carpentieri costruirono una banchina di legno sostenuta da travi piantate a croce nella sabbia. Le barche e i pescatori trovarono più acconcio approdo veleggiando fino all’ultimo sussulto, un lieve beccheggio come un sorriso. Il mare chei ristagnava si tingeva di verde, nelle travi di sostegno giocavano ragazzi e granchi delicati confusi nell’alga come velluto. Il verde allora giocava con gli azzurri e anche coi rosa delle antiche pitturazioni che era il rosso pozzuoli detto anche terra rossa, ora stinto in rosati come damasco. Così che venivano i pittori dai paesi attorno a dipingere un panorama che voluttuosamente riposava e dove Nausica danzava, fino a quando non cominciò il saccheggio che travolgeva archi e scale e balconate e logge.
Nausica ha continuato a riavviarsi i capelli col un gioco tondo della mano, e ad adornarsi con gli orecchini di perla, stende il bucato su corde tese al suo balcone mentre voci da paranze e barche s’aprono nell’aria, c’è mercato libero della pesca del giorno.



Il giovane che partì andando a curallo s’è fatto vecchio, ma ha sempre Nausica scolpita nel suo cuore.
Ciro Adrian Ciavolino

Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 15 aprile 2015