Le strade si vestono di un volto, di una facciata di palazzo, di una insegna. E di vetrine. Vincenzo Romano era ancora Venerabile per la strada a lui dedicata, ’a miezaparrocchia fino a ‘ncoppavvuardia. Una vasca, dove nuotavamo galleggiando sui nostri sogni e, soprattutto di domenica, con giacca e cravatta. La più popolata, quando andare a Capotorre era un viaggio come andare in un paese sconosciuto. Esagero, lo so. Insomma luoghi con pagine diverse di un quaderno a righe, sui quali scrivemmo una acerba storia di impaziente giovinezza.
Dai cappelli poteva campare una famiglia. Nello stretto antico vicolo andando verso la chiesa di Santa Maria di Costantinopol, a sinistra,i c’era un cappellaio che lavava e riordinava cappelli bisognevoli di cura. Il cappellaio era un buon signore, aveva una nutrita famiglia di opulente formato, con figliole bellissime, era per noi il compare cusitore, come lo chiamava mio padre, o mia madre. Non conosco il legame del comparaggio, ero appena un ragazzo. M’avvedo che mi ha portato laggiù l’ala di un cappello, una falda come un tappeto volante, pensieri in volo. Ebbene la bottega di Sequino della quale ho dato segnale, la costeggiavo ogni giorno, vomitato dall’arco di Vico del Pozzo per andare verso Capotorre dove mi aspettava l’edificio delle scuole elementari, in Via Vittorio Veneto. Alla vetrina di Sequino mi fermavo incantato: c’era bene in vista un cappello in miniatura, sì e no quindici, venti centimetri falda compresa, un Borsalino, ma forse un Lobbia, cappello così chiamato da un fantasioso cappellaio di Firenze, dedicato al deputato Cristiano Lobbia per un evento politico nel 1869.
Il negozio, prima dei tempi miei, era tenuto da un certo Sgueglia. Costui non potendo pagare forniture, cedette l’esercizio a don Guglielmo Sequino commerciante all’ingrosso napoletano in Via Pietro Colletta, una bella strada, erta, che va dal Teatro Trianon fino ai Tribunali andando a smarrirsi davanti alla luminosa Porta Capuana. Don Guglielmo mise così in quel locale un giovane figlio, Luigi, abbastanza spensierato, che si piegò al lavoro di famiglia. Questo avveniva negli anni ruggenti, nel 1927.
Il giovane Sequino mette un poco la capa a posto, si sposa e sua moglie sgrava sulle lenzuola di casa una mezza dozzina di figli. Per far conto pari, tre femmine, Angela, Maria e Carmen, e tre maschi, Guglielmo, Salvatore (quello con la barba dice Guglielmo, il mio narratore, e che io non ravviso tra le memorie di migliaia di facce torresi, seppure, forse, io l’abbia conosciuto) e Ciro che da giovane si è allocato ammiezassanmichele, in un lustro negozio che più lustro non si può. Per la sua attività di abbigliamento s’era dato un nome brillante, un simbolo d’eleganza, Lord Brummel. E come tale si comportava facendoci illividire di invidia passeggiando egli con uno stuolo di donne bellissime, forse indossatrici mandate da case fornitrici di abbigliamento. Non sappiamo.
Guglielmo invece si arrocca nel negozio ereditato dal padre Luigi. Noterà in seguito che la città cominciava a spostarsi più in alto, e allora segue la corrente e apre in Via Roma un negozio di stile classico, alla maniera delle belle boutique di via Toledo: e’ il 1966, l’anno dell’alluvione di Firenze, era novembre. Quando Franco Zeffirelli girerà un documentario e affiderà poi la voce narrante a Richard Burton. Sarà un documentario straordinario, una pagina di grande televisione in bianco e nero.
Guglielmo il narratore mio di via Roma mi consola d’antica amicizia, sorridenti lui e il figlio Luigi ed accompagnati dagli occhi bellissimi di una nipote, Laura Di Matteo. Non è una grande storia di famiglia ,ma riconoscibile, per la loro attività , seguita anche da Elio, con negozio in via Salvator Noto. Seduto accanto al narratore, si corre con la memoria ad altre facce, come quella di un suo fedelissimo amico che era un fratello di mia suocera, Umberto Serdonio: lavorava ai Mulini Marzoli. Entrò un giorno in un montacarichi dove non era arrivata la pedana e cadde da parecchi metri spezzandosi una gamba. A zio Umberto piaceva il cinema ma di più era un ammiratore di cassiere di cinema, di quelle che appoggiavano il prosperoso seno sul banco della biglietteria per farlo riposare dal loro gravame e comunque attraendo spettatori. Zio Umberto avrebbe potuto raccontare una storia del cinema nella nostra città, ma non ne ebbe il tempo, non riuscì a invecchiare.
Io sono amante di cappelli, ne posso contare fino a venti, o anche più, per tutte le stagioni. E nel negozio di Guglielmo Sequino spesso mi son fornito, e data l’antica amicizia, cercavo di commuoverlo sul prezzo, riuscendovi poco. Tanto che ho arricchito la mia collezione di copricapi con qualche pessimo esemplare cinese di cartone pressato. E con questi vado a spasso diventando conosciuto non per chi sono o che faccio, ma per uno di quelli, siamo pochissimi, che si possono facilmente indicare dicendo: quello che porta il cappello.
Eppure il cappello veste, esso è nel mio corredo principale, lo evito per poco tempo quando non è né inverno né estate. Diventato talmente abituale che spesso vado per casa a cercare un cappello pur avendone già uno in testa. Come per gli occhiali, che pure spesso cerco pur avendone un paio sul naso.
Il piccolo Borsalino – o il Lobbia, fate voi – che era nella vetrina di via Venerabile Vincenzo Romano, Guglielmo non ce l’ha più: quel feticcio che mi ha accompagnato durante la mia adolescenza e giovinezza, nella strada dei primi amori, delle comitive, e dei grandi film, è stato smarrito. Mi sarebbe piaciuto rivederlo, toccarlo, come toccare un lembo della mia vita lasciata laggiù, in una sporta ricolma di gioie e tristezze, avventure e inedie, errori e conquiste, e che si stemperano giorno per giorno nella memoria. I miei eroi del cinema in bianco e nero devono il loro fascino ai cappelli. Pensate ad un Humprey Bogart senza cappello.
Gli americani del cinema entravano dappertutto senza toglierlo mai.
Il cappello è in bianco e nero.
Ciro Adrian Ciavolino
Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 12 novembre 2014