Uno dice ora vado a Portosalvo e ci va. Con l’ombrello, cala su Via Comizi, scende per la scala a zig zag che mena a Via Fontana, un’opera d’arte nell’ingegneria civile, da ieri imbrattata ancor più di pittura bianca, senza rispetto. Lì vicino qualcuno vende colori. Non vede. Portosalvo è tutto quanto in se stesso contiene, quartiere gente mare barche, e quindi la chiesa. Che contiene il p arroco dietro una catasta di libri e carte don-Franco-Rivieccio

che dalla scrivania tentano di nasconderlo alla vista. Ma è grande e grosso e dietro quel guazzabuglio appare, come un busto commemorativo. Don Franco Rivieccio è parroco di quella antica c hiesa e della breve e difficile comunità. E’ naturale ch’io faccia domande e il sacerdote dia risposte. Egli narra, prend o tutti gli appunti possibili ma come sempre ne utilizzo pochi, partendo dalla sua nascita per poi andare alla famig lia, in ascendenza. Un sacerdote non può vantare discendenza. M i dà una data di nascita delle quale non do conto ma della casa in cui nacque sì, un segno del destino, Traversa Sant issimo, che da Via Salvator Noto porta in Piazzetta. Così che i suoi primi vagiti si mischiarono alle voci di chiapparielli e aulive, friarielli e stoccafisso. Proprio là sotto v’era bottega di un baccalaiuolo, Salvatore, Tore. E nella scienza del Seminario Don Franco sarà un baccalaureato, si dice così, nel 1982. Poi sacerdote nel 1983, insieme a don Nicolino Longobardi, benedetti dal Cardinale Ursi. Varie peregrinazioni, Don Franco, Vice parroco in Santa Maria del Carmine per dieci anni, Rettore a Cappella Carotenuto, insegnante di religione, Cappellano per l’Ospedale Maresca, Postulatore della Causa di Santificazione del Beato Vincenzo Romano, e della Beatificazione di Don Mariano Arciero, collaboratore dell’Archivio Storico Diocesano, insomma non si è fatto mancare nulla. E altro intraprende anche se, approdato alle rive dei luoghi marinari, a quelle è ancorato.

Don Franco mi ha steso quasi una biografia dei suoi percorsi. Andando molto indietro mi racconta di suo nonno F rancesco, uomo di fiducia della Ditta Liguori, coralli e perle, quelli di Corso Vittorio Emanuele. Con un autista e camion andava a Civitavecchia per ritirare un carico di corallo proveniente dalla Sardegna. In una curva, a Isola del Liri, il mezzo si ribaltò, Francesco tentò di gettarsi dal finestrino ma un ulteriore ribaltamento fece richiudere il cristallo con violenza, una ghigliottina, gli recise la testa. Era noto come Sciampagna per il suo carattere gioviale, allegro, il classico amico dei bei tempi di baldoria, ma poche Signorinelle ai tempi suoi.
Il padre di Don Franco, Giuseppe Giovanni, noto come Gianni Sciampagna, era piccolo di camera sulle navi della mitica Società Italia, navi a forma di navi, Andrea Doria. Giulio Cesare, Augustus, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello. Aveva sposato Maria Rosa Salerno, figlia di un Vincenzo Salerno pittore, decoratore di talento, firmava insegne per negozi, quelle su cristalli, decorava case quando le case pretendevano pitture, come La Notte, nei soffitti delle camere da letto, una donna alata con bambino e luna, simboli di maternità e pace familiare.
Di quest’uomo si racconta che, andato a casa di un signore che l’aveva mandato a chiamare per decorare la casa col suo magico pennello, il maestro Vincenzo si presentasse con abiti da lavoro. Il signore che s’aspettava un paludato artista, aprendo la porta gli disse: Ma io avevo chiesto del pittore Salerno…E il maestro rispose: E io chi sono, Vietri sul mare? Questa storiella si raccontava, qualcuno ricorda.
Questa famiglia, come quasi tutte, si porta ancora addosso lo strangianomme: il più noto di questi era Cesare Sciampagna, zio di Don Franco, uomo brillante, animatore di allegre compagnie, grande tifoso dellaTurris, popolare scapolo inpenitente, donne d’attorno non se faceva mancare. Fino a quando su un aereo che lo portava in Inghilterra per commercio di corallo e affini non incontrò Roberta, una bellissima hostess che lo incantò, si sposarono e Cesare ora vive a Londra. Ma torna spesso, appena può, al suo sole e al suo mare che gli sta nell’anima.
Quando prendo commiato volgo uno sguardo alle foto degli ex-voto ai muri di uno spazio parrocchiale divenuto saletta teatrale. Nella greve penombra di luci sommesse le foto ricordano quadri votivi come si usava offrire per salvezza da tempeste marine e naufragi. Erano alla Parrocchia del Carmine. Stavano per essere bruciate per le solite frenesie di rinnovamento quando un signore di passaggio le chiese per sè dando un obolo alla chiesa che voleva disfarsene. Da una copertina di un periodico d’arte sacra, molti anni dopo, Don Antonio Mangone venne a sapere che una cinquantina di queste piccole graziose opere erano state donate al Museo della Marineria di Venezia, una sala intera. E là s tanno.

Intabarrato per difendermi dall’umidità, come compare Turiddu vado fuori all’aperto, con un addio alla mamma ma Madonna, Santa Maria di Portosalvo. C’è ancora pioggia ma più lieve, fili di seta si descrivono in tracce oblique davanti a vecchie lampade di strada. Oscillano con lamentosi cigolii al leggero vento che viene dal mare catene e armamenti di paranze, mugolano un pianto come di anime del purgatorio. Mi inerpico per scale che menano al Viale Castelluccio per guadagnare l’altezza di Capotorre. Qui la nuova Via Roma è un molo d’altura con bitte di pietra etnea, attracco con la navicella dei pensieri alla mia casa, e buonanotte alla luna. Che stasera è velata, come vedova che versa lacrime di scirocco.
Ciro Adrian Ciavolino
photo Pasquale D’Orsi



Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 17 dicembre 2014