Torre del Greco com’era e com’è. Ecco dove ci ha portato la politica degli ultimi anni

C’era una volta una città nota nel mondo per la lavorazione artigianale del corallo e dei cammei, nonché della madreperla da parte dei suoi abili maestri.
C’era una volta una città che aveva un’importante industria armatoriale, erede dei pescatori di corallo, con sei grandi società di navigazione (Deiulemar, Giuseppe Bottiglieri di Navigazione, Fratelli D’Amato, Dimaiolines, Bottiglieri – De Carlini – Rizzo).
C’era una volta una città florida di lavoro, rappresentato dalla cantieristica navale, dai laboratori orafi e del corallo e aziende florovivaistiche. Dal dopoguerra agli anni ’70 Torre del Greco rappresentava il maggior serbatoio di forza lavoro legato alle grandi navi. I marittimi iscritti erano più di 30mila.
C’era una volta una città e ora non c’è più, almeno non più come era.
L’industria del corallo e del cammeo, come quella dell’oro, è in piena crisi (il crack del consorzio Oromare è solo la punta dell’iceberg); la floricultura con le sue numerose serre è in uno stato di lenta agonia; il comparto marittimo dai quasi 30mila operatori che riusciva ad impiegare è sceso a malapena a 6mila unità; le attività armatoriali, dopo i fallimenti della Dimaiolines, il quasi fallimento della RDB e, soprattutto, dopo la truffa che hanno subito migliaia di obbligazionisti ad opera dei vertici della Deiulemar; sono alla frutta.
In più, a queste delicato momento storico per l’economia cittadina, si aggiunge un depauperamento dei valori umani, nonché in stretto senso demografico (perdendo anche la leadership di comune non provincia più grande d’Italia); c’è scarsezza di tutto, dove ad abbondare è solo la sporcizia che resta ferma agli angoli delle strade, come ferma resta ogni azione politica: una politica della quale non si riesce a percepire la presenza, chiusa sempre più, in maniera ottusa, nelle sue stanze e perdendo così il contatto con i cittadini, bisognosi, ora più che mai, di essere guidati fuori dal guado delle incertezze di un futuro senza speranza di rivalsa e di crescita. Un futuro dove la parola d’ordine dovrebbe essere rinnovamento: rinnovamento non solo di idee, ma soprattutto di uomini che restano attaccati in maniera ossessiva alle loro posizioni, adulati dagli stessi dieci servi sciocchi, che li patentano, per questo, ad essere importanti, e che sono i primi responsabili dello scenario disastroso che ci troviamo avanti agli occhi.
Se non lo capiscono loro che è tempo di farsi da parte, dobbiamo essere noi, cittadinanza attiva, a fargli capire che è arrivato il tempo di cambiare, senza tentennamenti di sorta. Le condizioni storiche suggeriscono che è arrivato il momento, ora, adesso!
Alfonso Ancona

Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 21 novembre 2012