Il banco di scuola aveva perso vernice nel tempo, era nero, la superficie era rigata, il piano leggermente inclinato, reclinabile se aveva cerniere, aveva un buco sulla destra, c’era una specie di crogiuolo, l’inchiostro era nero, il bidello lo rinnovava da una bottiglia diventata nera. La lavagna era di ardesia, nera, io avevo un Penna-e-Calamaio-phDOrsi

grembiule nero. Ero piccolo e gracile, sedevo al primo banco, insieme all’unica bambina di nome Albina, non sapevo perchè era lì, tra tanti maschi, forse raccomandata alla maestra che per noi era sempre la Signorina, la Signorina Medoro. Sul grembiule un colletto bianco di piquet e un fiocco rosso, sulla manica del grembiule una strisciolina rossa che indicava la Prima Elementare, sul mio la striscetta era orizzontale. Mi prendevano in giro dicendo che frequentavo non la prima ma la mezza. Cose così, in casa, fino a quando non fui promosso in seconda classe e le striscette divennero due, la prima s’era sbiadita. Si scriveva con penna e calamaio.
Con la prima comunione arrivò qualche penna stilografica, dentro aveva una pompetta per caricarla di inchiostro da un calamaio, eravamo alle scuole medie, in certe stanze di un palazzetto all’angolo di via Venerabile Vincenzo Romano, ancora non Beato. Mi capitò di raccattare da qualche parte certi fogli più grandi di un quaderno. Fu allora che mi inventai un giornalino, quattro pagine, i miei compagni mi davano i loro scritti su fogli di quaderno, li trascrivevo: ero quindi compositore, redattore e direttore. Si narravano cose di casa, avventure, desideri e altre amene storie ancora intrise di innocenza. Non rammento un titolo, forse non l’aveva. La scuola media era già un privilegio. Ci spostarono in una villetta al viale Cristoforo Colombo, molti compagni abitavano da quelle parti, vestivano bene, io mi arrangiavo e fronteggiavo armato di vivacità e fantasia. Per il giornalino qualcuno mi scrisse qualcosa citando i pettegolezzi, la prima volta che sentivo questa parola, chiesi cosa significasse: io venivo da Vico del Pozzo, da quelle parti e insieme alla mia famiglia fatta anche di zie indomabili zitelle si parlava un torrese arcaico, non potevano conoscere parola così novella per tutti. Ero in legacci di persone analfabete, un linguaggio pieno di esempi da proverbi e detti di saggezza, vivevo in un ibrido di confuso lessico, mi dibattevo tra compagni rozzi e compagni di scuola che abitavano in belle case.
Uno di questi abitava in una villetta di Viale Diaz, in un locale scantinato ci acconciammo per fare un circoletto. C’erano giochi signorili ,giocavamo a domino, non ero bravo, non mi piaceva. A un Natale feci anche un presepe nel vano lucernario all’altezza del vialetto del giardino sulla strada. Qualcuno aveva una specie di macchina da proiezione, filmetti brevissimi, frammenti di film in bianco e nero su pellicola piccolissima, la proiezione meno di un minuto, la macchinetta era soltanto un giocattolo. Una sera vedemmo una scena dal film La carica dei seicento, vedemmo una famosa cavalcata, e soltanto quella era. Una sera arrivò un giovane brillante di quei luoghi e fingendo con le dita una pistola ci intimò un mani in alto come nei film western. Era Nino Longobardi. All’epoca del funzionante Cinema Teatro Garibaldi aveva inventato con alcuni universitari come lui un giornaletto vero, stampato in tipografia. Ricordo il titolo di un suo scritto nella prima delle quattro pagine, forse il primo della sua vita di buon giornalista futuro, dal titolo: Aveva le pulci la barba di Verdi? Su tutta una fila di palchi c’erano ritratti ben dipinti da buona mano di glorie musicali nostre: si riferiva al medaglione con il ritratto del grande musicista che troneggiava sul palco centrale. Se mi coglie follia di ricerca potrei trovare il giornalino tra mie antiche carte. Cominciò la sua vita di giornalista al Corriere di Napoli ma giunse presto a Roma, al Messaggero. Penna audace, brillante, controcorrente, ebbe successo anche con libri acidi, a cominciare dal famoso Il figlio del Podestà, un’acre autobiografia. Spirito ribelle, la sua penna volò su tutta la vita civile e politica alla maniera, tanto per citare, di Leo Longanesi o di Ennio Flaiano. Anticonformista, accanito fumatore e assiduo frequentatore di tavoli verdi, dilapidò le sue sostanze. Ma il suo timbro di scrittore fu eccellente. era geniale, questa città l’ha dimenticato. Erano segnali per me, oltre le scuole ho continuato a scrivere. Sarei approdato, molti anni dopo, al giornale La Torre, e poi su tanti altri, di molti si è persa memoria.
Torno all’adolescenza. Ho amato i giornali che erano di vera carta, mi piaceva l’odore dell’inchiostro tipografico, le dita si annerivano. Si comprava il sabato sera, lo strillone dava voce della uscita delle estrazioni, nelle mani delle donne di casa fasci di biglietti giocati avevano suoni precisi di carta ministeriale. Sul Corriere di Napoli c’erano firme di scrittori di razza, ho amato gli scritti di Carlo Nazzaro, emergevano giovani come Prisco, Compagnone, Stefanile, Incoronato, per dirne alcuni. Allora c’era nei quotidiani la terza pagina, fatta di belle lettere ed arte. Cominciai a ritagliare articoli per conservarli, li incollavo su certi libroni dismessi dal negozio delle zie. Ora manipolo un giornale fatto più di plastica che di legno, sta perdendo la sua natua vegetale. Sono rimasto uno dei pochi col giornale in mano, la mattina.
Ciro Adrian Ciavolino
ph Pasquale D’Orsi

Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 17 giugno 2015