Il conte Umberto Raimondi aveva già da un po’ superato gli ottant’anni. Se non ci fosse stata quella dannata infezione agli occhi, che l’aveva ridotto quasi alla cecità, non avrebbe avuto di che lamentarsi per il suo stato di salute. Si sentiva ancora pieno di vigore, curava personalmente buona parte dei suoi affari, e quelli che avevano a che fare con lui si accorgevano ben presto che il conte era “vecchio” solo per l’anagrafe, perché in quanto a furbizia, a capacità di ‘chiudere’ a suo vantaggio le trattative, non era facile trovare qualcuno che gli tenesse testa.
Però, a chi lo conosceva bene, non sfuggiva che, da qualche tempo, il conte Umberto non era più lo stesso. Si avvertiva con chiarezza che il vecchio gentiluomo continuava a gestire i propri affari più per abitudine che per effettivo interesse. D’altra parte, perché avrebbe dovuto penare per aumentare i suoi profitti? Dopo la morte della moglie, in un terribile incidente d’auto, non gli era rimasto più nessuno, o almeno nessuno per cui valesse ancora la pena di lottare.

E’ vero che il conte Raimondi aveva un figlio – Giacomo – ma con lui, ormai, non aveva più alcun tipo di rapporto. Si incontravano solo a fine anno, quando Giacomo tornava al castello per rendicontare al padre sulla parte delle attività economiche della famiglia che gestiva in prima persona: l’azienda vinicola, il frantoio, la catena di alberghi dislocati in rinomate località turistiche, i numerosi agriturismi, eccetera.



Quello che esisteva tra padre e figlio era, quindi, un legame di esclusivo carattere “professionale”. I dissidi tra loro risalivano a vecchia data, da quando Giacomo, nonostante la risoluta opposizione di Umberto, volle sposare per forza Jacqueline, un’indossatrice francese. Era bella, Jacqueline, e questo nessuno poteva negarlo… Ma il conte non s’era lasciato ingannare dalla sua avvenenza: aveva intuito che la francesina mirava solo al patrimonio dei Raimondi, ed era effettivamente così. Il divorzio, qualche anno dopo quel contrastato matrimonio, aveva sancito la definitiva fine della storia d’amore tra Jacqueline e Giacomo. E quanto costò al povero Giacomo quel divorzio! La furba francesina pretese l’impossibile e l’ottenne.
Da quel momento, per Giacomo iniziò la “china”. La delusione era stata cocente, ma ancora di più gli “bruciava” dover ammettere che, ancora una volta, suo padre aveva avuto ragione. Cadde in depressione, trascurò i suoi affari, cominciò a bere, a frequentare donne che, come Jacqueline, miravano solo a spillargli quattrini, in cambio di qualche squallida ora di stordimento dei sensi…
Prese anche a giocare, e a perdere, tutte le sere, ma per questo non c’erano problemi. Giacomo trovò molti “amici” disposti a prestargli denaro, fiumi di denaro, che avrebbe loro restituito, con i dovuti interessi, a “babbo morto”, una volta, cioè, che sarebbe entrato in possesso della cospicua eredità paterna. Il conte Umberto sapeva tutto, ma sapeva anche che a nulla sarebbe valso tentare di far rinsavire Giacomo: non l’avrebbe ascoltato, come sempre!

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E’ il 20 di dicembre. Il conte Raimondi è nel suo studio. Ha detto al fedele Giulio che può andare a dormire e di liberare anche il resto della servitù, non appena sarà arrivata la persona “che lui sa”. Il conte è molto legato al suo maggiordomo e a tutti gli altri domestici che, da una vita, gli stanno accanto al castello; è quella, in pratica, la sua famiglia. Sono quasi le dieci di sera, e il conte si prepara a ricevere il suo ospite. Siede vicino al camino, accende la sua fedele pipa e dopo pochi minuti Giulio annuncia che è arrivato “il signorino Giacomo”: lo chiama ancora così, il vecchio maggiordomo, che l’ha visto nascere, il suo padroncino!
Giacomo biascica un quasi incomprensibile “buonasera” rivolto al maggiordomo e subito si dispone ad aprire le sue carte per il consueto rendiconto annuale. Tra padre e figlio, neppure un cenno di saluto. Il vecchio conte ascolta con grande attenzione l’interminabile sequela di numeri, dati, guadagni, perdite, introiti ancora da incassare, debiti da pagare, senza interrompere. Quando, dopo più di un’ora, finalmente Giacomo termina la sua relazione, il conte Umberto si alza dalla poltrona e si avvicina alla sedia sulla quale, di spalle, è seduto il figlio. Giacomo sta dando un’ultima scorsa alla lettura delle “carte”: non può accorgersi che la mano del padre è vicina alla sua nuca, pronta ad una carezza che non ha il coraggio di fare…
“E’ tutto a posto…” comincia freddamente il conte, dopo aver represso il gesto affettuoso che gli era venuto spontaneo. “Gli affari procedono bene, e mi sembra che ci sia stato un leggero incremento rispetto all’anno scorso…”
“Già…” conferma laconicamente Giacomo.
Poi tra di loro scende, come sempre, il silenzio.
Giacomo fa per raccogliere i fogli delle sue relazioni e si accinge ad andar via.
“Un momento solo, Giacomo…” dice il conte imbarazzato. “Ecco…Ti volevo chiedere… Come stai?”
“Non credo che la cosa ti riguardi!” risponde secco Giacomo. “Scusami, ma ho fretta.”
“Sicuro che hai fretta!” sbotta il conte. “Hai fretta di correre tra le braccia di qualcuna delle tue donnacce, o di andare in qualche bisca a farti succhiare i pochi soldi che ti sono rimasti!”
“E tu come fai a saperlo?” si meraviglia Giacomo.
“So pure molte altre cose” riprende il conte adirato. “Per esempio, che ti stanno facendo ancora credito, ma perché sperano di rifarsi abbondantemente con la vendita del castello, quando chiuderò gli occhi per sempre. Però vi siete fatti male i conti, tu e quelli che fingono di aiutarti…”
Ma Giacomo non l’ascolta più. Ha sbattuto con violenza la porta dello studio e se n’è andato, ripromettendosi di non mettere mai più piede in quel castello. E invece, neppure due mesi dopo quella sera, è di nuovo lì. E’ stato convocato dal notaio Castaldi per aprire il testamento del conte Umberto Raimondi, passato a miglior vita per un’improvvisa e letale compromissione polmonare causata da un virus.
Giacomo ha partecipato, la settimana prima, ai funerali del padre, e non è stato capace neppure di “fingere” un dolore che non provava. Anche adesso è lì, davanti al notaio, impassibile… Mostra solo di avere fretta: desidera portare a termine quella noiosa incombenza quanto prima è possibile!
“E allora, notaio, vogliamo iniziare la lettura del testamento?” dice infastidito.
“Abbia pazienza, signor conte” risponde, calmo, il notaio. “Siamo in attesa degli altri eredi…”
“Ma di quali altri eredi farnetica? Io sono figlio unico, e perciò unico erede!”
“Aspetti, signor conte… Vedrà che le cose non stanno proprio come lei crede…”
Dopo qualche minuto, ecco entrare nell’imponente studio notarile Giulio, accompagnato da Gelsomina, la cuoca, da Nunzio, il giardiniere e dagli altri domestici. C’è anche un frate cappuccino, e Giacomo proprio non riesce a spiegarsi quella presenza, così come non capisce cosa ci facciano lì Giulio e l’intera servitù del castello.
E’ nervoso e, nello stesso tempo, preoccupato… Quando il notaio termina la lettura del documento, Giacomo non è più soltanto agitato: è diventato una vera furia!
“Attiverò immediatamente i miei legali! Impugnerò il testamento! Avrete presto mie notizie, tutti quanti voi, che avete raggirato, non so come, quel vecchio rimbambito di mio padre!” strepita senza ritegno, rivolgendosi agli astanti. Poi, come se fosse stato morso da una tarantola, schizza via dalla stanza.
Ma che cosa c’era scritto in quel testamento? Che cosa aveva stabilito il conte Umberto come sue ultime volontà? Niente che possa meravigliare, conoscendo la sua determinazione, la sua rettitudine. Il conte aveva semplicemente mantenuto fede alla sua promessa: il castello non sarebbe mai diventato proprietà di Giacomo!
L’aveva donato ai frati cappuccini del convento nel quale si recava, di tanto in tanto, a pregare, a ricordare in silenzio tutti quelli che aveva amato nella sua vita. Ma il lascito aveva una condizione: i frati sarebbero entrati in possesso dell’immobile, non subito, ma solo quando il Signore avrebbe chiamato a sé Giulio e tutti quelli che, “più che se fossero stati suoi figli” – diceva nel testamento il vecchio gentiluomo – “l’avevano sorretto e scortato sino alla fine del suo faticoso, lungo, viaggio terreno”.
Ernesto Pucciarelli