Nella rubrica odierna, la prima dopo la pausa estiva, torniamo a parlare di una fattispecie di reato a molti sconosciuta: la “Simulazione di reato”. In base a quanto previsto dal nostro ordinamento, allorquando ci si rivolge alle competenti autorità per denunciare un illecito penale si mette in moto un meccanismo finalizzato all’accertamento del fatto e all’individuazione del relativo responsabile; ciò, naturalmente, determina l’impiego di risorse, sia umane che finanziarie.

Di qui, allora, la previsione, da parte dello Stato, di alcune norme finalizzate ad impedire che i cittadini denuncino alle autorità dei fatti non rispondenti al vero, con conseguente dispendio di danaro pubblico. Una di tali norme è rappresentata dall’art. 367 del Codice penale, che stabilisce:“Chiunque, con denuncia [c.p.p. 333], querela [c.p.p. 336], richiesta [c.p.p. 342] o istanza [c.p.p. 341], anche se anonima o sotto falso nome, diretta all’Autorità giudiziaria o ad un’altra Autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, afferma falsamente essere avvenuto un reato, ovvero simula le tracce di un reato in modo che si possa iniziare un procedimento penale per accertarlo, è punito con la reclusione da uno a tre anni.”.

Attraverso tale previsione normativa si vuole evidentemente richiamare l’attenzione dei cittadini sulla gravità di un’accusa avente ad oggetto un fatto costituente reato. Una denuncia non può essere presentata per il perseguimento di obiettivi che esulino dai fini di giustizia, men che mai per gioco. Attenzione, quindi, a ciò che si riferisce alle autorità preposte a perseguire gli autori dei crimini: affermare il falso potrebbe costare caro a chi pensa di potere farsi beffa della giustizia.
Alessandro e Giovanni Gentile