Qualche volta abbiamo esposto opere appendendo un cartello con la scritta “Arte nei luoghi insoliti per l’Arte”, un invito per incuriosire, per il piacere della sorpresa. Ed ecco che per il teatro di un gruppo ormai storico in questa città, siamo andati in una placida sera di prima estate in un complesso di edifici sempre affascinanti, intorno a Villa Bruno-Prota, un antico borgo settecentesco, con residenza nobile e residui di strutture miste, luogo di delizie con proprietà terriere e impianti agricoli non più efficienti. C’è anche la cappella privata, ci sono alloggi per contadini, stalle, forno, lavatoi, pozzi. Il luogo era chiamato la terra del fattore, come ancora oggi, era il fiduciario dei proprietari di un vasto territorio, campi di caccia e stradina verso il mare.
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Per l’occasione Angelo Di Ruocco ha presentato lo spettacolo illustrando storie del sito. Ci sono notizie di due secoli fa, ma faccio pensiero che scendendo nel sottosuolo, oltre le grandi cantine dell’epoca, si possano incontrare altre vestigia che mi porterebbero molto lontano nei secoli se sappiamo che d’attorno ci sono resti di testimonianze di antiche colonie romane, vedi Villa Sora. Del resto a Napoli, per scendere al teatro romano dove anche Nerone si esibiva nei frequenti viaggi nella doviziosa terra partenopea, si è costretti a passare attraverso un basso in via Cinquesanti, nel cuore di Napoli che spesso percorro andando al Decumano Maggiore. Il Teatro di Donna Peppa – che esisteva a Napoli in secoli passati – al quale Antonello Aprea si è ispirato per darsi un titolo, osserva un repertorio inesauribile di commedia tipicamente nostra.

Difficile certo ipotizzare qui un tragitto di tale portata. Ma il pensiero si fa complesso, e ci porta lontano, se accosto la commedia napoletana di questa sera a quella d’epoca romana di oltre due millenni lontana da noi, Terenzio, o Plauto ancor più, e più lontano ancora presso i greci, dove erano ben accette commedie degli equivoci con libere concessioni ad un linguaggio anche scurrile, aperto alle improvvisazioni e ad espressioni non proprio signorili. Così che la commedia godereccia e di evidenti complicanze tra i personaggi, in un florilegio di misticismo alternato a fraseologie pecorecce, denotano non celati riferimenti a farse che i francesi chiamavano pochade, cioè teatro che conduce al godimento un pubblico non certo esigente, dove il dialetto è idioma principe nella tradizione che ha trovato grandi interpreti specialmente nel repertorio ormai classico della grande Luisa Conte, regina del teatro Sannazzaro, eletto a tempio per tali rappresentazioni, e che accoglieva stagioni memorabili di grandi compagnie dedite proprio a tale teatro; viene naturale quindi far riferimento a tale passato e illustre.

Antonello Aprea presenta col titolo “E’ asciute pazzo ‘o Parrucchiane”, una delle più note commedie di Gaetano Di Maio, una storia che man mano nei due tempi cresce per l’intenso incastro di una serie di situazioni gonfie di bugie, sottintesi, allusioni con riferimenti a complotti di vicinato, cicalecci, pettegolezzi. Insomma un classico volgersi e svolgersi di situazioni imbarazzanti, svenimenti e rinfacci, siamo davanti a una parata di sanguigne interpretazioni. Tutto quel che avviene è paradossale, mettendo in discussione relazioni umane in villerecci ambienti tipici di un piccolo paese chiamato Pietrascura. Scenette tipiche nei temi di teatro degli equivoci trattandosi di operine da camera da letto, come si definiscono tali tipi di commedie.
Se si dovesse dire delle qualità di ognuno correrei il rischio di dimenticanze od omissioni, ma non posso non sottolineare che il gruppo degli attori di primo piano sono soggetti ad arte disposti come pedine di una grande partita a scacchi con schermaglie prevedibili e no. A partire dal primo fulcro intorno alla ineffabile e irrefrenabile figura del sacrestano Modestino, vivace nelle entrate e nelle uscite, Donna Rosa una cariatide della scena, il parroco Don Sandro spartiacque, la baronessa Donna Bianca facile a svenimenti, il Sindaco Vittorio pronto al discorsino di circostanza, Suor Candida che proprio candida non è, il Vescovo che è diavolo ed acqua santa, e tutto un corollario di interpreti nei ruoli giusti disegnati da una regia attenta e fortunata.



Naturalmente queste farse prevedono il lieto fine con i dubbi riposti in un angolo della canonica del parroco: quando nel gran finale affiorano chiarimenti e omissis, oppure tutto si giustifica alla maniera che si prevede, dove ognuno sa ma poi non sa, avviandoci verso la tavola dei cosiddetti tarallucci e vino per trovarci in un pubblico confessionale, dove tutto si chiarisce come avveniva nell’antico teatro romano del quale abbiamo detto: una specie di deus ex machina, era un marchingegno di legno che sorgeva dal fondo della scena tra suoni, nuvole di fumo e canti, portando in alto Giove che dava il giudizio finale.
Tutti colpevoli e tutti innocenti, quindi, come poi sempre accade. In questo caso sono un po’ tutti un Giove sentenzioso.
Bene tutti gli attori. Regia attenta come sempre.

E sotto le stelle di questo cielo, a Leopardi, “tutti insieme rimasero felici e contenti”.

Ciro Adrian Ciavolino
ph Pasquale D’Orsi

Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 20 giugno 2016