Stavamo su un prato, mia madre era in compagnia delle sue amiche, forse un lunedì in Albis. Aprirono ognuna un canovaccio, avevano cose da mangiare, e frutta e dolci, qualche bottiglia di vino. Io ero in compagnia di una lucertola, farfalle, passerotti, formiche. Lontano, tra i tronchi dei pini, il bagliore di una casa bianca, con le colonne. L’alternarsi dei tronchi scuri e il bianco di calce mi dava l’idea di una tastiera di pianoforte. Sono stato sempre curioso e domandai alle donne cosa potesse essere, una disse: Forse è una chiesa. Avevo sì e no cinque anni. Ci sono andato anni dopo, quando a scuola imparavamo a memoria Il sabato del villaggio e seppi che non era una chiesa ma Villa delle Ginestre e che vi aveva abitato Giacomo Leopardi. Vi son tornato più volte, da grande. Maturava così l’idea di un ciclo di opere pensando agli ultimi due Canti scritti a Torre del Greco, proprio in quella villa, come poi ho fatto, nel 2010. Ho avuto l’onore di un invito dalla Fondazione Ente Ville Vesuviane di esporre in permanenza sette delle venti tele dedicate a La ginestra ed a Il tramonto della luna. Ora Villa delle Ginestre è una chiesa laica.

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Villa delle Ginestre: Non potrà da allora mancare in itinerari improvvisati, anche per curiosare cosa ci fosse Giacomo-Leopardi-VilladelleGinestre-phDOrsi

oltre quelle colonne che, quando Leopardi vi soggiornava, non esistevano. Documenti la mostrano soltanto con un pròtiro a sostegno di piccola loggetta. Negli anni settanta mi piaceva in solitudine vagare in quelle campagne, odori di erba fresca contornavano pensieri di poesie semplici, patrimonio solenne e assiduo di scuola, alla fine delle elementari, all’inizio delle scuole medie. A queste ebbi privilegio di accedervi con il necessario rito degli esami di ammissione, un muro da scavalcare. Di quell’esame non ricordo nulla, è antica supponenza di aver scritto bene. Non ricordo dell’esame ma di una specie di pre-esame: mio padre, per poter verificare della mia preparazione appresa da qualche apposito testo, mi mandò a casa di un buon maestro di scuole elementari, il professor Annunziata, che aveva casa nei nostri paraggi, vi andai con un libro-guida ma forse mi fece leggere altro. Era una frase semplice, presa a caso aprendo una pagina a caso, mi invitò a leggere e mi fermò ad un “che” con voce nevrotica che lo distingueva. Come quando aveva di pomeriggio un doposcuola affollato, in una stanza con banchi chissà come rimediati. Egli mi chiese cosa fosse quella parolina e cosa significava. Prontamente gli risposi che era un pronome relativo e quale la sua funzione. Alzando la mano come se si trovasse in classe, esclamò di botto: “Basta, va bene così. Vai pure, quel che hai detto è giusto e dici a tuo padre che stai a posto”. Me ne andai contento, mi ero reso conto che con la sua platea scolastica, o la sua classe, e i ragazzi che teneva a doposcuola avesse lì molto da lavorare raccogliendone da un quartiere popolare qual’era ‘ncoppauardia. Non sapeva il buon maestro che segretamente rubacchiavo carte bianche buone a scrivere e che spesso trascuravo i compiti a casa per scrivere di mio. Avevo allora dieci anni.



E’ di quei tempi che le mie zie e mia madre avevano un modesto negozio di tessuti al numero 19 di Corso Umberto I°. La bella targa viaria di quei tempi, mamo bianco, recava anche la scritta Già Borgo: era l’antica denominazione di quei luoghi. Il negozio aveva una tesa di scale interna che menava al portone di Vico del Pozzo numero quattro e vi era anche una porticina della macelleria contigua, al numero 17. Donna Teresina Collaro, abile commerciante piena di sorrisi e complimenti, sapeva davvero vendere. Ella era amica del commendator Luigi Sorrentino che nel 1905 aveva fondato il giornale La Torre, che usciva quando usciva. Era, donna Teresina, affezionata lettrice. Ella spesso declamava la frase sottotitolo della testata: Sta come torre ferma che non crolla / già mai la cima per soffiar di venti. Lapidaria, così. Quella frase accompagnava la mia adolescenza, il giornale La Torre sarebbe stato un approdo molti anni dopo. Vi restai per vent’anni, lo lasciai per motivi forse già noti agli amici e anche ai lettori di oggi.
E trovo proprio oggi, scartabellando per altro nelle vecchie raccolte del giornale, per il rispetto delle mie inevitabili coincidenze, il foglio abbastanza lacerato del 4 giugno 1966, e in prima pagina, con caratteri in neretto: Un’aspirazione esaudita / Villa delle ginestre sarà patrimonio di tutti. Ma dovettero passare quarant’anni, e passarono. Quando cominciavo a scrivere per questo giornale, andai un bel giorno che bello proprio non fu, a Villa delle Ginestre. Non ricordo ora se usciva o rientrava: avendo con me una macchina fotografica ripresi una automobile che usava il portone della Villa come garage. Oggi si dice scoop, pubblicai la foto con un mio scritto. Ora la Villa, reasturata e ben tenuta dalla Fondazione Ente Ville Vesuviane ospita per donazione e definitiva sistemazione sette mie opere su Leopardi che ho realizzato nel 2010 .
Ora il mio ciclo di opere leopardiane con le mie tredici e le sette gentilmente prestate dalla Fondazione troveranno dignitosa collocazione nella Basilica di S. Giovanni Maggiore, Via Mezzocannone, adiacenze Università Federco II°, per il Maggio dei Monumenti. Tutto questo gioco di rimandi, notazioni, esperienze, letture, coincidenze, sono un bagaglio di memorie, compiacimenti e attenta ospitalità nel cuore di Napoli. Il Maggio dei Monumenti è sotto il segno ‘O core ‘e Napule. Io sono sotto il segno dei colori.
Ciro Adrian Ciavolino

Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 29 aprile 2015