Il carretto passava e quell’uomo gridava gelati,
al 21 del mese i nostri soldi erano già finiti,
io ripensavo a mia madre e rivedevo i suoi vestiti,
il più bello era nero e coi fiori non ancora appassiti.
All’uscita di scuola i ragazzi vendevano libri
Io restavo a guardarli cercando il coraggio per imitarli,
poi sconfitto tornavo a giocar con la mente e i suoi tarli
e la sera al telefono tu mi chiedevi “perchè non parli”.
Che anno è, che giorno è…
Mogol – Battisti: I giardini di marzo

Anch’io mi chiedo che anno è, che giorno è, mi appare soltanto che era d’estate e mio fratello Francesco era un militare di marina. Con la divisa bianca sul far della sera portava a mia madre un gelato comprato al Caffè Romito all’angolo della strada, ncoppauardia, il tratto era breve, mentre gli scalpellini s’attardavano profittando del bel tempo e per scarso traffico, sbrecciavano la strada che aveva basoli di pietra vesuviana ch’erano lisci dopo anni di usura. Camminavano seduti su un brevissimo scannetiello, sembravano granchi come quelli che passeggiavano sugli scogli della spiaggia sotto il Cavaliere, verso il cimitero vecchio sul mare, si diceva così e non so perchè e chi poteva essere il cavaliere. Forse immaginario forse no, il cavaliere, aspetto i conoscitori di storia nostra, ditemi chi era. Al Cavaliere andavamo sotto Villa Sora, residuo d’epoca romana, quasi ignudi, costumino rimediato chissà come. Giungevamo agli archi prossimi alla riva, antiche terme, resti ormai sfiniti di tempo e di mani rapaci che cercavano tesori mai scoperti, forse mai esistiti, non restava ai ladri che trafugare intonaci decorati con buone pitture. O interi pavimenti. Non è rimasto quasi niente, ci inorgogliamo del niente.

Gelati-phDOrsi

Percorrevamo la strada che ancora mena al cimitero antico in pieno sole meridiano. A metà percorso, all’angolo di un vicolo che finisce sul mare passando sotto un piccolo ponte delle Ferrovie dello Stato, v’era un omino con un banco smaltato bianco. Vendeva ghiaccio grattato chiamato in lingua nostra cazzabbocchio, una parola tutta nostra, onomatopeica se vogliamo, data la forma. Un parallelepido tronco in diagonale ai lati così come dallo strumento usciva, con grazia di movenze il venditore su quello irrorava “sensi”, come si diceva per la varietà dei sapori e dei colori che vagheggiavano un frutto, le bottiglie erano la tavolozza di Gildarella, era così chiamato l’uomo del ghiaccio colorato. Ed è rimasto nella storia come denominazione di luogo, si dice sott’’u ponte ‘i Girdarella.Così chiamato perchè diverso, era femminuccia.



Di sorbetti era ghiotto Leopardi che ne faceva un uso smodato, da Vico Pero scendeva a Toledo in compagnia di Ranieri per gelati e confetti cannellini, anche di questi era ghiotto. Abbiamo letto che proprio il giorno in cui moriva avesse ingurgitato un mezzo chilo di confetti di Sulmona, dopo o prima una bevanda calda. Si sentì male e stava già male. Così che chiamando i medici uno di quelli, forse il dottor Mannella, il più assiduo, disse chiamate il prete. Il prete lo benedisse già morto. La carrozza che era giù al palazzo per condurlo a Villa delle Ginestre attese invano. Per qualche ora soltanto o un giorno Leopardi non è morto qui. Il mistero l’avrebbe inseguito per sempre, forse fu calato in una fossa comune, infuriava a Napoli il colera. Si opinò per anni sulla sua sorte, nella chiesa di San Vitale a Fuorigrotta, quando fu aperto un cenotafio a sua memoria che avrebbe dovuto conservarne i resti non furono trovate che quatto ossa. Questa è una storia controversa, se ne parla ancora. La mia è una citazione più che sommaria, rimanderei qualche mio lettore, se vuole approfondire. di cercare gli esaurienti scritti di Raffaele Raimondo.

E i gelati? Sì, mio fratello Francesco che portava il gelatino a casa, tornava a Taranto sulla corazzata Cavour. Allora mia madre aspettava il carrettino dei gelati che Francischiello faceva sorgere da via XX settembre: un trionfo. Si annunciava con un fischietto di stagno a piccole canne, una specie ridotta del flauto di Pan. Mia madre ignorava la parola cono, lo chiamava cuppetto. I più raffinati gelato da passeggio. Dovranno passare degli anni prima che la Pasticceria Blanco aprisse una gelateria un poco più giù sulla stessa strada, un ampio spazio dove una volta c’era un negozio che vendeva le macchine per cucire della Singer. La novità fu una macchina per gelati tonda, orizzontale, cominciavano a sparire le macchine per gelati in verticale con l’asse che faceva roteare pale. Fu allora che poco più che adolecenti conquistavamo quello spazio, d’estate, per ritrovarci. Ci saremmo man mano trasferiti con gli amici verso Capotorre, dove ancora vivo. Finchè vivrò.

Non passa più il carretto, non s’ode più voce di gelataio ambulante nè fischietto del dio Pan. Mia madre non s’affaccia più dal Ponte di Vico del Pozzo, per aspettare Francesco o Francischiello. Tempi lontani, non ci sono più.
A volte aspettava me.
Fuoi quella stradina verso il cimitero vecchio e il mare, dove Girdarella vendeva cazzabbocchi, sarebbe il caso di apporre una targa:” Il ponte di Girdarella”. Con la erre, sì, come noi diciamo.

Felice estate.

Ciro Adrian Ciavolino
ph Pasquale D’Orsi

Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 22 giugno 2016