EDITORIALE
Nella vicina Ercolano, primavera di visite guidate su scavi e itinerari vesuviani, gite fra i sentieri del Parco Vesuvio e fra giardini e ville borboniche costeggianti il Miglio d’Oro, punte di diamante di un Festival reclamizzato su testate nazionali. Torre del Greco, che pure aveva i suoi hatù, langue in una brodazza puteabonda, spoglia di iniziative, non inserita in programmi storico-culturali di ampio respiro. La ex città del corallo ospita le solite festarelle e festicciole, una volta storico-religiose, oggi degradate da occupazioni di marciapiedi, sempre più invasive. Megabancarelle di torroni e zuccheri filati acchiappamosche, sui cui stessi ripiani, a fine giornata, sudati, spossati, igienicamente cadono addormentati nei loro panni da lavoro, i bancarellari stessi.
Inutile sperare che dopo l’uso concesso da una amministrazione dopo l’altra, essi si disobblighino almeno con una sommaria rimozione o pulizia di lattine, cartacce, plastiche, contenitori e quant’altro spiaccicato per terra. E’solo uno dei motivi di disgusto del cittadino che, una volta speranzoso che qualcosa volvesse in miglioria, avvilito, abbandona la città. Questo il tema centrale che troverete nelle pagine seguenti cui hanno lavorato, fervidi, i nostri redattori: la gente se ne va. Chi resta, non può muoversi dal territorio, o ci viene solo per dormire, ma, se può manda i figli a studiare altrove, in attesa di raggiungerli nell’età pensionabile.. E’ che oramai, nel paesone che fu Torre del Greco, manca l’anima dei luoghi, per dirla con James Hillman, quella propensione che fa riconoscere un luogo come proprio. Talvolta dai pulpiti, dopo l’ennesimo delitto di camorra che scuote l’opinione pubblica perché ha decimato degli innocenti, si è incitato i fedeli al Fuitevenne. Il senso della massima ingiustizia subita, la perdita di vite umane, assieme alle vessazioni del quotidiano rendono imperiosa l’estrema alternativa. Noi non concordiamo sulla fuga, ma sull’andare là dove ci porta il cuore, direbbe la Tamaro, se esiste un luogo ove in qualche modo non ci sentiamo dei condannati alla disperazione, ma dove ci sembra di ritrovare la nostra anima. Vivere in luoghi irrespirabili, impercorribili per i pedoni, dove si sgomita per esprimersi perché privo di occasioni di lavoro, di socializzazione, incattivisce, rende egoisti ed invidiosi verso chi riesce bene o male a sopravvivere. Il fuggire può essere vile. L’esodo invece è il ponderato prendere atto delle cose, è il non fossilizzarsi sulle retoriche di tutto quello che il proprio paese ha rappresentato per noi e che non rappresenta più. Un libro crudo, senza mezzi termini di denuncia dello stato attuale del sud parte dal porto di Napoli. Molti erano stati i saggi su camorra, mafia e ‘ndrangheta, ma la paura di ritorsioni esimeva gli autori dallo spiattellare quanto il fenomeno, capillare, fosse irreversibile. Quel libro, GOMORRA, dal 16 maggio, tradotto in film, sarà presente in anteprima in tutt’Italia. Lo lessi di un fiato e l’allarme mi ha gelato l’anima. Vi ho sentito la sincerità e la commozione di Roberto Saviano, napoletano come noi, che per questo vive ancora sotto scorta e mi sono subito, forse per prima, precipitata a farne partecipi i lettori.
In un mondo pusillanime, di chi vive per sé, il senso dell’eroismo è labile, banale. Si battono le mani al passaggio della bara dell’eroe, ebbro di alcool e di chissà quant’altro, che in una nottata brava ha sfasciato la vita sua e dei compagni di bravata, in folle corsa automobilistica andando a sbattere contro l’albero o il muro. Se abbiamo bisogno di eroi, segnaliamo quelli che rinnegano l’ingiustizia, la ferocia che imputridiscono la società e ne scardinano i valori, quelli che si battono per un ideale, pronti a pagare le conseguenze della denuncia sociale con la menomazione della propria libertà, che per una giovane vita non è cosa da poco.
E, soprattutto, esimiamoci dall’invidiargli un successo tutto a suo rischio e pericolo.
CleSo