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Dare una definizione ben precisa del termine “lavoro” non è semplice come sembra. Non è sufficiente, infatti, sfogliare le pagine del dizionario per comprenderne il valore, il significato ma soprattutto la valenza. Per anni storici e filosofi sono stati in contrasto tra loro su quest’aspetto. Alcuni, come Carl Marx, dicevano che l’uomo quando lavora è fuori di sé e quando non lavora è in sé; altri, invece, come i calvinisti, davano un valore sacro e inviolabile al lavoro e al profitto. In seguito, la rivoluzione industriale, ha insegnato al cittadino del mondo che il lavoro sfama, nobilita l’uomo e innalza la sua dignità. Tutte belle parole. Ma oggi com’è realmente la situazione? Una sola parola può riassumere gran parte delle cause della crisi: disoccupazione. Un fenomeno che nel 2012 dovrebbe essere solo un lontano ricordo eppure continua a persistere soprattutto tra i giovani e i motivi sono molteplici. Secondo quanto dice il ministro del Lavoro Elsa Fornero, i giovani sanno troppo poco. Non conoscono le lingue, l’ italiano compreso, e neanche i rudimenti della matematica. Dunque colpa delle scuole che non garantiscono una preparazione ampia e flessibile o dei giovani che non sono motivati? Senza contare del ruolo che la politica ricopre in questa questione difficilmente snodabile. Aumentando l’età pensionabile, quante probabilità ha un ragazzo neolaureato di affacciarsi al mondo del lavoro? Probabilmente pochissime. Ma non solo. Come si può pretendere che i giovani apprendano doverosamente se nelle scuole le aule sono affilatissime e i docenti malpagati e non considerati dall’opinione pubblica? Insomma, si prospettano tempi ardui per i giovani di oggi i quali non hanno più certezze e, di questo passo, nemmeno più una speranza a cui aggrapparsi.
Alessia Rivieccio
 
Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 16 maggio 2012