Oggi, 15 aprile 2017, ricorre il 50esimo anniversario della morte di Totò, Antonio De Curtis.
Totò confessò, la sera del 13 aprile, all’autista, Carlo Cafiero, che lo accompagnava a casa a bordo della sua Mercedes: “Cafiè, non ti nascondo che stasera mi sento una vera schifezza”.
Rincasato trovò un pò di serenità, anche grazie al sorriso di Franca, ma un forte malore allo stomaco lo indusse a chiamare il medico. Il giorno 14 aprile trascorse l’intero pomeriggio a casa a parlare con Franca e del suo desiderio di godersi le vacanze a Napoli. In serata dopo aver mangiato una minestrina di semolino ci furono i primi sintomi, tremore e sudore, ed affermò: “Ho un formicolio al braccio sinistro”. Franca capì subito: era il cuore. Avverti la figlia Liliana, il medico curante, il cardiologo professor Guidotti, il cugino-segretario Eduardo Clemente.
Gli furono somministrati dei cardiotonici, ma le condizioni non migliorarono. Alle due di notte si svegliò e rivolgendosi al cardiologo disse: “Professò, vi prego lasciatemi morire, fatelo per la stima che vi porto. Il dolore mi dilania, professò. Meglio la morte” e rivolgendosi al cugino “Eduà, Eduà mi raccomando. Quella promessa: portami a Napoli“.
Erano le tre e trenta del 15 aprile 1967.
Il 17 aprile alle 11,20 la salma venne portata nella chiesa di Sant’Eugenio in viale Belle Arti e dopo una semplice benedizione iniziò l’ultimo suo viaggio nella città natia. A Napoli giunse alle 16,30. Nella Basilica del Carmine Maggiore lo attendevano circa tremila persone, mentre altre centomila sostavano nell’immensa piazza antistante. Ci fu un lungo applauso.
L’orazione funebre fu pronunciata da Nino Taranto, poi la salma fu portata nella cappella di famiglia dei De Curtis dov’è sepolto accanto al padre Giuseppe, alla madre Anna e a Liliana Castagnola.

L’amico Eduardo De Filippo ricordò il Principe della Risata attraverso le pagine della storica testata “Paese Sera“, quotidiano chiuso negli anni ’90. Una lettera schietta e sincera: “un ricordo pubblico perchè quello privato lo tengo per me”, scrisse Eduardo.
Non tutti sanno che Totò trascorreva parte del suo tempo libero a Torre del Greco, presso la Villa “Olivella” di proprietà del conte Paolo Gaetani, intimo amico di De Curtis. Riportiamo di seguito la lettera di Eduardo:

“Erano più colorate le strade di Napoli, più ricche di bancarelle improvvisate di chioschi di acquaioli, più affollate di gente aperta al sorriso allora, quando alle dieci di mattina le attraversavo a passo lesto avevo quattordici anni per trovarmi puntuale al teatro Orfeo, un piccolo, tetro, e lurido locale periferico, dove, in un bugigattolo di camerino dalle pareti gonfie di umidità, per fare quattro chiacchiere tra uno spettacolo e l’altro, mi aspettava un mio compagno sedicenne che lavorava là…
Oggi è morto Totò. E io, quattordicenne di nuovo, a passo lento risalgo la via Chiaia, e giù per il Rettifilo, attraverso piazza Ferrovia. Entro per la porta del palcoscenico di quello sporco locale che a me pare bello e sontuoso, raggiungo il camerino, mi siedo e mentre aspetto ascolto a distanza la sua voce, le note della misera orchestrina che lo accompagna e l’uragano di applausi che parte da quella platea esigente e implacabile a ogni gesto, ogni salto, ogni contorsione, ogni ammiccamento del “guitto”. Do un’occhiata attorno; il fracchettino verde, striminzito, è lì appeso a un chiodo: accanto c’è quello nero. Quello rosso glielo vedrò indosso tra poco, quando avrà terminato il suo numero. I ridicoli cappellini… A bacchetta, a tondino… e nero, marrone, e grigio… sono tutti allineati sulla parete di fronte. ..Manca il tubino: lo vedrò tra poco. Il bastoncino di bambù non c’è: lo avrà portato in scena. E lì, sulla tavoletta del trucco? Cosa c’è in quel pacchetto fatto con la carta di giornale? È la merenda, pane e frittata. E la miserabile musica continua, e la sua voce diventa via via ansiosa di trasportare altrove quella orchestrina, di moltiplicarla. Dal bugigattolo dove mi trovo non mi è dato vederlo lavorare, ma di sentirlo e immaginarlo com’è, come io lo vedo come vorrei che lo vedessero gli altri. Non come una curiosità da teatro, ma come una luce che miracolosamente assume le fattezze di una creatura irreale che ha facoltà di rompere, spezzettare e far cadere a terra i suoi gesti e raccoglierli poi per ricomporli di nuovo, e assomigliare a tutti noi, e che va e viene, viene e va, e poi torna sulla Luna da dove è disceso.



Ora sono travolgenti gli applausi e le grida di entusiasmo di quel pubblico: il numero è finito. Un rumore di passi lenti e stanchi si avvicina, la porticina del bugigattolo viene spinta dall’esterno. Egli deve aprire e chiudere più volte le palpebre e sbatterle per liberarle dalle gocce di sudore che gli scorrono giù dalla fronte per potermi vedere e riconoscere, e finalmente dirmi: ” Edua’, stai cca’! ” E un abbraccio fraterno che nel tenerci per un attimo avvinti ci dava la certezza di sentire reciprocamente un contatto di razza. E le quattro chiacchiere, quelle riguardavano noi due, le abbiamo fatte ancora per anni, fino a pochi giorni fa”.
Eduardo De Filippo – dal Paese Sera del 1967