La scrittura ha bisogno talvolta di uno spazio, come un intermezzo musicale. Mi viene di porne nella scrittura, armo una inserzione di corsivi. Come aprire di poco una porta per far entrare un taglio di luce, spesso necessario. Come a teatro, al cinema, come un’orecchietto ad una pagina di libro, come il quarto Bancone-cinema-antico

d’ora di pausa in una partita di calcio per dar modo agli atleti di dissetarsi, detergersi dal sudore, insomma per prendere fiato. Allora lo spettatore, o chi ascolta musica, o il lettore, volge mente e occhi altrove, trova un momento di ristoro mentale. Questo intermezzo allora mi serve per interrompere la catena umana dei Ritratti di famiglia, una digressione, per divagare, senza verifiche sulla pelle di protagonisti viventi o trapassati.
Pause, un segnalibro, un caffè, una telefonata, un cordiale, uno sguardo dai vetri di una finestra, una raddrizzata di cravatta, un pensiero improvviso, una visita, una bussata di porta, la signora del quarto piano alla quale manca sempre qualcosa, aglio, zucchero, cipolla, prezzemolo, o anche il fornetto ché il suo s’è rotto, ma anche il mio. Un intermezzo poteva essere la grida dello strillone, ‘o Matino ‘o Roma, o il fischietto del postino, che da mezzo secolo non si sente più. Il postino bussa sempre due volte, film famoso, prima edizione 1946, Lana Turner, John Garfield, bianco e nero. Non mancava annata che non comparisse il cartellone all’angolo di Via Gradoni e Cancelli, per il Cinema Iris, o il Cinema Vittoria che aveva porte su un adiacente supportico che menava a certi anfratti e scoscendimenti d’antiche eruzioni. Suggerisco: da visitare. In quel passaggio tre pesanti porte del piccolo locale vi gravitavano; la prima di quelle, adiacente allo schermo, era destinata ai terzi posti, dove fanciulli e poveracci si andava, per far trasmigrare tra noi pulci ed altri insetti desiderosi di folte chiome.
Ecco, dietro quella porta d’inverno, e fuori d’estate, c’era un personaggio famoso in vita e anche dopo nell’immaginario torrese, era chiamata Mammèa, derivava quel nome straordinario forse da Maddalena o, meglio, da Carmela, qualcuno lo sa, dei vecchi. Poiché per quella soglia qualcuno entrava o usciva, se non si muoveva sollecitamente, s’elevava un grido collettivo proprio come coreuti d’una tragedia di Sofocle o Euripide: Mammèeee ‘a porta, perchè momentaneamente il fascio di luce sbiadiva lo schermo, figuriamoci se durante una scena importante. Una invocazione famosa, all’occorrenza ancora oggi per le più svariate occasioni, come per dire la sai lunga oppure a chi la vuoi far credere. Erano minuetti le grida, erano frammenti, continui intermezzi, pennellate di luce e grida come scene dantesche illustrate da Gustavo Doré, era il nostro inferno “dove sarà pianto e stridor di denti” e così è stato per me, qualche volta, nel cinema accanto, quante volte mi hanno cacciato via dalla sala del Cinema Iris. Per l’abitudine che s’aveva, ragazzi, di vedere un film anche due volte, certi brutti ceffi venivano a verificare il biglietto calcolando l’orario degli stacchi osservandone la numerazione. Quante volte non avevo visto ” neanche ‘u mmio”, venivo buttato fuori, risultavo come spettatore abusivo, e non era vero, perchè mi avevano dato un biglietto riclitato, fuori del cinema c’erano taluni che chiedevano il tagliando: li riportavano alla cassa, venivano così rivenduti. I questuanti guadagnavano un ingresso gratuito. Probabilmente questo piccolo commercio della cassiera non era noto ai proprietari del locale.
Mammèa guardiana della porta dei terzi posti al Cinema Vittoria vendeva caramelle. In via Gradoni e Cancelli, appena all’inizio, il banco dell’acquafrescaio, don Ciro Feola, aveva promosso una bibita nuova: la schiuma, era l’autarchica Coca Cola quando non conoscevamo la Coca Cola, e di quella aveva il colore. Solo la nostra buona salute, due anni della mia infanzia appeso alla zizza di mia madre e razza nostra longeva, mi hanno salvato da quelle aniline che ingurgitavo nel giorno di festa, quando mio padre mi dava mezza lira per il cinema ed altre spesucce, fave, cìceri e semmienti, fichi d’india, castagne spezzate, carrube infornate, liquirizia, rusicarielli, un quarto o anche meno di pizza dalla stufa. E le nocelline americane, lo spassatiempo più consumato che dall’odore si tramutava in tanfo perenne nei locali e uscendo come folate di turbolento scirocco insieme agli spettatori esausti, era un misto di stallatica essenza, di sigarette Alfa fumate fino a dita bruciate, e ristagni come di infime bettole, insieme a vapori di vomiti inevitabili e peti non trattenuti. Quell’aria pestifera usciva dai cinema schiaffeggiando i muri insieme a larghe flatulenze diffuse dalle bocche degli spettatori. Certo, non potevo comprare tutto, amministravo i miei pochi spiccioli, diversificavo. C’era anche chi non poteva comprare il biglietto, ragazzi senza un soldo chiedevano agli adulti d’essere accompagnati come figlioli, anime del purgatorio a invocare una mano salvifica per poter entrare. Chi non ce la faceva a trovare assistenza, anche perchè abbastanza cresciuto, arrangiava racconti da chi aveva visto il film.
Dove la strada si svolge in discesa una porta corrispondeva alla sala inferiore del Cinema Iris, proprio di fronte al lontano schermo. Era come una grattugia, piena di buchi. La porta dei disperati, a quella si poggiava l’occhio cercando il foro che non andasse dritto alle spalle degli spettatori in piedi. E riuscivano a vedere qualcosa se scansavano sagome umane. Se dovessi dire quale scena più attraente, a parte quelle dei film western, dovesse simboleggiare quel tempo e quei luoghi, credo che eleggerei il film La cena delle beffe, un dramma di Sem Benelli, vengono in mente le due scene più ammalianti, quando per un attimo appare il seno di Luisa Ferida, oppure quando il mitico Amedeo Nazzari pronuncia la famosa frase, con evidente inflessione della sua lingua sarda: E chi non beve con me, peste lo colga. Con una O chiusa che ha fatto storia. E qui anch’io chiudo qualcosa, l’intermezzo
E chiudo anche la porta dei terzi posti del Cinema Vttoria sorvegliata da Mammèa.
Ciro Adrian Ciavolino

Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 28 gennaio 2014