Quando uno dice piazza ne prepara una agli occhi. Nella nostra città si può pensare a una o due, non più, Santa Croce, Luigi Palomba. E con tutto il rispetto per costui, che pochi sanno chi era, rimane Ammiezatorre, nonostante antiche denominazioni, Piazza del popolo, Italo Balbo. Poteva diventare una specie, dico proprio una specie fatte dovute differenze, anche se non monumentale, una sommessa Piazza Navona, piccola illusione. E’una piazza di transito, ora. Nelle vecchie stampe appare nel tenero bianco e nero con poche persone. Qualche carrozzella, un banco di acquafrescaio d’estate, un lustrascarpe, nu Filippo-Romito

sciaraballo (un francesismo napoletano da char à bancs, un mezzo di trasporto “a panche” trainato da cavalli o muli), a volte il tram, qualche rara automobile. Memoria conserva i due Caffè che si fronteggiavano, Il Caffè di Conte, don Luigino Conte buon incisore di cammei, e il Caffè di Filippiello, angolo tra la piazza e Via Gaetano De Bottis, strada che ancora oggi chiamiamo U vico r’a Croce: sullo spigolo v’era una grande croce di legno su una piramide di qualche metro di lapilli ben acconciati su un basamento, uno dei tanti riferimenti storici violentati, non c’è più. Un giovane, un po’ parente per via di mia madre, provvedeva per qualche fiore o lumino. Di questa nostra incivile tendenza a distruggere memorie storiche non ci restano se non continue lamentazioni.
Siamo agli inizi del Novecento: tre fratelli gelatai in Puglia giungono da queste parti, cercando aria napoletana, per trovare nuove sponde di lavoro. E uno di questi, Filippo Romito, trovò anche una donna da marito, incontrò Lucia Magliulo e la sposò. Aprì un locale, un Caffè ‘i notte e ghiuorno, come si diceva allora, tanti ce n’erano per quelli che ancor prima dell’alba viaggiavano per andare al lavoro, ai mercati, ai campi. Filippo che sarà noto come Filippiello, ebbe undici figli: Pasquale che sarà per sempre Pasqualino, Leopoldo, Raffaele (aveva fabbrica dei famosi coni per gelati Romito), Giuseppe noto come Gliaglione, Gennaro che sarà sempre Gennarino, Angela, Rosa, Elisa, Geppina, Eugenia, Filippo. Quel Caffè di Filippiello era un teatro, persone di una simpatia unica, Pasqualino e Peppe, ma per tutti solo Gliaglione, avevano ereditato il Caffè. Erano comici involontari, in una piazza dove le cosiddette mattizie erano d’obbligo. Vi facevano sponda, ora presenti nella memoria di gente matura negli anni, personaggi come lo scultore Antonio Mennella, Salvatore D’Amato ottimo pittore, don Pietro e don Salvatore Vitiello, Raffaele Raimondo grande progettista di luminarie da festa e una schiera di più giovani nell’arte dell’incisione, i Crispino, i Di Lecce, i Battiloro. Sarebbe una lista infinita e non è qui la sede per citarli tutti. Convivevano umorismo e cultura.
Dei detti fratelli Romito, era noto anche il più giovane Gennarino, soprattutto nell’ambiente sportivo della Turris, la squadra che era una sua ragione di vita. Tanto che, all’epoca della allegra e vincente presidenza Di Maio, gli fu assegnata una medaglia d’oro proprio per questo suo legame alla squadra. Seguiva le partite dovunque, era una bandiera, un simbolo. Aveva sposato Colomba Iacomino, figlia di Giovanni Iacomino, soprannome Brasilè, brasilero, per i suoi frequenti viaggi in America Latina. Il figlio di Gennarino Romito, Filippo in ricordo del nonno, frequentava le scuole elementari Nazario Sauro in Via Circumvallazione, già dalla prima classe aveva conosciuto Ciccio Raimondo: un’amicizia per la vita, ancora oggi. Crescendo, Filippo, appena fanciullo mostrava talento per l’arte, quando aveva dieci anni vinse il primo premio per un concorso scolastico sul tema della mamma, organizzato dalla Direttrice Gubitosi. Costei aveva chiamato Antonio Mennella allora direttore della Scuola d’Arte, per giudicare i lavori degli scolari. Dopo la licenza elementare Il ragazzo affrontò gli esami di ammissione alla scuola media, l’unica che c’era allora. Mennella, ciò sapendo, ricordando delle qualità artistiche di Filippo, gli procurò il trasferimento alla sua Scuola del Corallo. Intanto lo zio Pietro brasilè, fratello di sua madre, chiamava Filippo a disegnare su cammei di piccolo taglio anche perchè nel disegno il masto difettava, Filippo gli doveva disegnare teste di Marte, godeva di qualche regalo, cinque lire quando cinque lire significavano qualcosa per un giovinetto. Naturalmente il corso dei suoi studi fu brillante, durante quelli Filippo covava progetti di pittura: terminata la Scuola del Corallo si iscrisse all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Dopo di quella affrontò i concorsi a cattedra che vinse con merito. Gli fu assegnata una sede all’Istituto d’Arte di Cerreto Sannita, noto per la sezione di ceramica tipica delle regioni del Sannio. Si trasferì poi a Torre del Greco, nella nostra storica Scuola del Corallo perchè si liberava la cattedra del beneamato maestro napoletano Antonio Bresciani.
Filippo Romito è stato uno dei maestri prediletti da una schiera di allievi che ancora ricordano il suo insegnamento serio, svolto con dedizione e passione. Non sarebbe questa la sede per elogiare le sue qualità, si conoscono. Si dovrebbe scrivere a parte dell’evoluzione artistica di questo maestro che onora il nostro paese al di fuori dei confini torresi. Qui faccio storie di famiglie, cercando di incastrarle nel loro ambiente, cercando di scolpirle per fare affiorare alla memoria personaggi e luoghi e atmosfere del loro tempo. Piccole storie per una storia minima, come si dice, di una città di provincia con abitanti, e in più il mare e un vulcano. E artisti.
Ciro Adrian Ciavolino

Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 25 marzo 2015