Uno che si chiama Torrese se ne deve pur fare una ragione. Che è stata trovata, per storie nostre di forzate migrazioni: credere o non credere, in tempi passati, seppur dotati di leggiadra calligrafia, gli amanuensi municipali non andavano tanto per il sottile. Così che quando nel 1631, la lava di fuoco, scendendo di corsa dal Vesuvio, rincorreva gli abitanti di questa plaga fino al mare, barche a vela o senza v ela erano pronte per salpare, gonfie di fuggiaschi. Punta- rono la prua su Ischia. Era gente semplice, gli scrivani iso- lani capivano e compassionevolmente aggiungevano, ai nomi dati, la provenienza. Torrese, torrese, torrese. Tornar ono. Siamo sempre tornati sulle lave ancora calde e luccicanti.

L’avvocato Luigi Torrese per me e gli amici è rimasto semp re Gigi, Pronunciato a modo nostro con due G, Giggi. Vive circondato da una assemblea di chiese, contiamole: Addol orata, San Giuseppe Calasanzio, Santa Maria di Costantinopoli, San Filippo, e Santa Croce, affettata dagli obelischi. C osì la vede dai suoi balconi. Il palazzo rinnovato negli anni trenta osserva un rigore architettonico di qualità, firma eccellente, in puro stile del tempo che conosciamo. Ora è munito di ascensore. Io salgo invece su predellini familiari per conoscere, fare un ritratto appena appena abbozzato. Questo ramo di famiglia in questa città è storia insaporita d’antico, di veste clerical–borghese.

Don Domenico Torrese era nato a metà Ottocento. Giovanissimo sacerdote, con laurea di dottore in Sacra Teologia ed altro ancora. Grande studioso, membro dell’Arcadia e della Corona d’Italia, continuava a vivere al numero sette di Piazza del Carmine, che ebbe successive intitolazioni col mutar di bandiere, cioè ammiezatorre. Tutto l’ampio spazio dei giardini del convento fu dato ai cittadini per costruire palazzi, a patto di non coprire la visuale della chiesa, come è stato. Quando in un certo anno si trattò di collocare la stat ua di Garibaldi, Don Domenico, tra l’altro di simpatie borboniche, aprì un contenzioso contro il Comune perché a vrebbe coperto la veduta della chiesa, senza rispetto. Un ulteriore affronto, egli era di simpatia borbonica. Garibaldi lì rimase e sta. Il 3 giugno 1894, arrivati sindaco, assessori e Libero Bovio che doveva tenere il discorso ufficiale, gli abit anti della piazza chiusero per il dispetto porte e balconi, la cerimonia si svolse con una piazza nutrita di pochi curiosi. Quando si trattò di intitolare la strada che sarà successivamente Via Roma, Don Domenico suggerì il più sconosciuto dei generali garibaldini, un certo Giuseppe Avezzana, che nessuno sapeva e sa chi era.



Don Domenico e suo fratello Raffaele e due sorelle possedevano ampio terreno dalle parti di Via Abolitomonte. Pensarono di ampliare una vecchia cappella e fecero costruire una chiesa dedicata a Maria Liberatrice delle Anime del Purgatorio,perciò è detta delle Pezzentelle e nota anche come chiesa di San Raimondo, in quella venerato. Una strada che congiungeva Abolitomonte con la Circonvallazione era nota come Viale Torrese.

Figlio di Raffaele era il commendatore Gennaro, tipo d’allegre vedute, gioviale e popolare, aveva sposato Clementina Villarosa, che bel nome. Morì giovane la donna, dopo aver dato alla luce quattro figli: Raffaele come il nonno, ottimo avvocato e amministratore integerrimo al nostro Comune, due femmine, Lucia e Rosa, e Domenico, Mimì Torrese, nota figura di maestro di scuole elementari. Nelle stanze della piazza, dove questa famiglia abitava, Mimì teneva il più affollato doposcuola della città. Severo e buon educatore, aveva voce che correva da via Purgatorio a via Piscopia, era uno, si può dire, che si faceva sentire. Aveva appena quattro anni quando sua madre Clementina morì. Gigi ha saputo da un signore anziano, molti anni più tardi, del lacerante pianto del bambino Mimì. Ecco, Gigi è figlio di Mimì, penultimo dopo Gennaro, commerciante, Clementina che sposò Salvatore Vitiello impiegato alla nostra Banca, attent o alla lirica avendo bella voce di tenore, Concetta che vive a Bologna e infine Donatella.

Questa è una scrittura quasi senza scena e senz’aria, sotto vuoto spinto. Dovevo tracciare qualcosa, ordinare legamenti di famiglia. Per cercare allora un paesaggio alle spalle di costoro, avrei potuto servirmi dei mappamondi dei quali Gigi fa collezione, o tempere di improbabili vedute di Torre del Greco animate da fugaci apparizioni di Armonia De Rosa – che bel nome – gentile e dolce moglie catturata in qualche r iunione dei Rotaract: passa indaffarata per le stanze che ho violato di prima mattina, quando si sfaccenda. Cerco qualc he atmosfera chiedendo di uscire alla terrazza volta al mare dove all’orizzonte si disegna intera Capri come una matrona sdraiata su una lettiga. Qui sotto un palazzo in puro stile Liberty, il famoso palazzo dell’acquavitaro, vendevano liquori ed essenze per farne in casa. Profumavano quella strada che è uno scivolo per andare Abbasciammare. Mi sventolo dallo scirocco che si stende in faccia con un fazzoletto di rimpianto per una chiesa che fu storica sede per il Pio Monte dei Marinai, è Santa Maria di Costantinopoli, 1700 indica una data, ridotta in frantumi. Un aereo paesaggio dall’astico seduce me e Pasquale D’Orsi che fotografa i dintorni. Cerco prospettive di bellezza all’ estremo del parapetto, dalla parte volta al Vesuvio, quasi sfioro le campane dell’Assunta, sorrette da una torretta a due facce soltanto, con qualche sommesso e umile contorno decorativo. Cerco con avidità scorci inusitati. Torre del Greco vista così è altra, e che non sempre posso vedere.

Anche perché non ho le ali.
Ciro Adrian Ciavolino

Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 26 novembre 2014