Coppola è una parola sdrucciola e nessuno la sbaglia, facile qui al Sud. Quando è un simpatico copricapo diventa icona del carattere italiano nell’immaginario corrente, specie all’estero. Quando diventa un cognome dubbi non se ne avvertono, è un nome delle parti nostre, s’è portato ovunque, e specialmente in America, coi nostri emigranti. Uno come me che invece è emigrato soltanto di un centinaio di m etri, a Capotorre, sdoganandosi dalla strada dei dieci vicoli, quel Corso Umberto I° più noto come in mezzo a San Gaetano, non può mai dimenticare gli spazi della sua giovinezza, dove la famiglia dei Coppola s’era portata da tempi e luoghi lontani.
Aurelia-Coppola

Ora sono risucchiato nel primo Novecento, non ero nato, sono però con un uomo che racconta. Faccio quindi un viaggio con scenette a fumetti. Apro pagine, Peppino ‘u piattaro passa in mezzo a San Gaetano col carretto, gira per paesi. Quella strada nella quale avrei vissuto fino ai miei vent’anni, sembrava una navata laterale di una grande chiesa e i personaggi erano i negozianti cheuscivano sull’uscio delle loro botteghe per salutare passanti, mi davano idea come usciti da nicchie di santi. Peppino Spagnuolo vendeva di tutto, passava e dava voce col carretto pieno di masserizie trainato da un ciucio paziente. E lo seguiva il figlio Agostino fino a quando non decisero di fermarsi in forma stabile, all’angolo di Vico Pizza.

Narro per voce del mio amico Salvatore Spagnuolo, figlio di Agostino che sarà noto come Mast’Austino ‘u scarparo. Allora s’indicava nome e mestiere, e il tempo sembrava ed era davvero più lento. Nei primi pomeriggi d’estate il sole s’inoltrava nella strada come una spada lucente nel proprio fodero, le voci divenivano lunghe e quasi solenni, le donne cantavano sulle logge gli ultimi motivi di canzoni napoletane, le bianche lenzuola stese su funi e forcelle s’agitavano come ali di angeli a schiera sui grandi presepi. In un raggio di sole Agostino, giovane qual’era, scalpitava di amorose urgenze, a diciassette anni sposò la bella Rosa Gargiulo c h’era figlia di un cantiniere all’angolo di Vico Portosalvo, dove il maestrale mandava odori d’alghe mentre si costruivano bastimenti all’aperto. Da lì calavano direttamente al mare. Così, con la sua giovane sposa a fianco, Agostino si liberava dal mestiere di piattaro del padre, aprendo a pochi passi da vico Pizza una merceria abitando, si fa per dire, nel retrobottega, come tanti facevano e come aveva fatto anche mio padre per il suo salone di barbiere nella stessa strada con donna Nannina, mia madre, ingravidandola dodici volte. Io vidi la luce alla fine di quella dozzina di criature. Agostino, intanto, per non fare concorrenza al padre piattaro, s’inventò un laboratorio di scarpe. La cosa riuscì, Agostino aveva fortuna e molti dipendenti, avrebbe presto cambiato casa.

Mi racconta ancora Salvatore, il figlio di Mast’Austino, mio amico da sempre, uomo rispettoso che non riesce a darmi del tu, clarino storico della banda municipale, che sposò Maria Grazia Ascione, una figlia di Don Ciro Ascione il quale aveva aperto una stanza ufficio più in alto nella strada in cui siamo, quasi alla incrocio di ‘ncoppauardia, con una insegna che ero costretto a leggere uscendo dalla mia casa in Vico del Pozzo. Era una scritta lunghissima, si faceva notare, Ciro Ascione Agenzia di Affari e Commissioni, e forse ancor altro, era la prima che s’apriva a Torre del Greco. Salvatore erediterà il negozio del padre pieno di scarpe ed altre utili cose, e dove sono andato per raccogliere notizie. Racconta allora che sua sorella Maria Rosaria, una donna dalla imponente figura, come una statua greca, non passava inosservata. Intanto il giovane Vincenzo Coppola, di bell’aspetto, conoscendo Maria Rosaria, non perse tempo, se ne innamorò come lei s’innamorò, e si sposarono. Divenuto vigile urbano, Vincenzo aveva mansioni d’ufficio presso la Pretura con incarichi che pretendevano serietà, fiducia e delicatezza, e con quelle doti è nella nostra memoria. Aveva modi garbati, e voce dolce. Ci avrebbe lasciato presto. Da Maria Rosaria e Vincenzo era nata Aurelia, che con me parla dei suoi percorsi d’arte.



Via Martiri d’Africa e successivamente il suo Prolungamento, con tal nome ancora in uso, fu aperta in alcuni anni successivi alla guerra, suppongo negli anni ’50 o forse qual-cosa in più, sul tragitto della Ferrovia Circumvesuviana dove i bei trenini sfioravano pini e selci, era quasi aperta campagna. La strada si sarebbe affollata ben presto di palazzi di qua e di là. In fondo a quella, sentendone gli abitanti necessità, fu costruita una chiesa dedicata a Santa Maria del Pianto. Divenne anche parrocchia retta da Don Peppino Sorrentino, perdendo tale denominazione quando Don Peppino andò a curare Cappella Binchini, e la chiesa f u dedicata a Santa Caterina perdendo il titolo di parrocchia. Lì, a dodici anni, Aurelia Coppola entrò nel coro della c hiesa, il direttore era ed è il maestro Giuseppe Polese, il gruppo ha un bel nome, Jubilate Deo. Da bianca qual’era, con gli anni che passavano in quella ricca esperienza, la voce di Aurelia, com’era naturale, cominciava a irrobustirsi, tonicamente andava verso timbri di calde sonorità, ella si avviava a divenire mezzosoprano, con ruoli sempre più s pesso da solista. I cori, si sa, si sfaldano e si ricompongono, c’e sempre chi va e chi viene, ma la bella giovane cantante cominciava a trovare spazi per le sue doti e qualità, spesso chiamata altrove, lontano dalle strette mura paesane. A 28 anni sposata con Stefano De Felice, non tralasceràstudi e impegni, il nuovo ruolo non scalfirà i suoi percorsi canori. Il bel canto non conosce pause, abbandoni, casualità, serve rigore, disciplina, è arte di corpo e di anima, di tecnica e di sentimenti. Aiutata da questa coerenza e dalle naturali qualità, Aurelia raccoglie ovunque consensi. Esalta con la presenza il nome di Torre del Greco, una città scrigno zeppo di talenti, e la signora dal bel nome di latina gens, con la serietà degli studi, percorre strade sempre nuove nel maturare della sua carezzevole voce.

Anche lei mi ha raccontato storie di famiglia, che qui risuonano come fosse un suo canto.
Ciro Adrian Ciavolino

Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 28 gennaio 2014