Mimi-gatta-di-CAdrian-Ciavolino

Uno se lo sogna un giorno così, veder passare un corteo, con tutta la famiglia dei Medici. E Sandro Botticelli con Poliziano sottobraccio, e mischiando due tre secoli di storia con Vivaldi a lato, staccando di netto la sua Primavera dalle altre Stagioni, reciderla, isolarla, come nei cassetti di casa dove, tra vecchie fotografie, puoi trovarne una, tagliata. Manca la figura che poteva essere accanto. Forse è rimasta una mano sulla spalla, mozzata al polso, il pover’uomo ex amore amputato come un ladro scoperto a rubare, come in qualche stato d’oriente. Non ho fotografie tagliate ma qualcuna ne ho vista, anche infilata tra specchio e cornice di una toilette a specchio ovale, come una volta si faceva. E perchè no, come se ne vedono talvolta in facebook, dove le foto abbondano, soverchiandoci, dove siamo sommersi da cambio di foto nei profili, tra aggiornamenti e condivisioni di pensieri altrui. Qualche volta ci cado, condividendo qualcosa di truce aspetto, penso a crudeltà su animali, pulcini maschi scartati e buttati nella spazzatura perchè non daranno uova, anche pulcini dipinti che presto moriranno di anilina velenosa, e genitori che li comprano per la gioia dei loro pargoli con la stessa disinvoltura con la quale danno cuoppi di patatine a figlioli già obesi.
Avevamo un cagnetta bianca con qualche macchia nera, Ketty, fece i suoi quettordici anni di sofferenza senza un maschietto agganciato dietro. Attualmente ho una gatta che appello ancora con diminutivo gattina, ma a sette anni è una signorina già fatta. E obesa, come certi bambini, e anche più grandi, obesi a furia di orribili patatine cotte a vapore condite da bidoni di salsa chissà come fatta. Si chiama Mimì, la gattina rossiccia con macchie bianche e ciuffi perlacei. Non è Mimì di Domenica o contrazione con eco di micia. Ella entrò in casa denutrita, svagata e sospettosa, obesa perchè sterilizzata, non ha portato alcun pensiero d’amore. Esplorò ed esplora ancora tutto, qui. E’ la padrona, si può dire. Arrivò nella mia casa studio che era poco lontana da questa, nella stessa strada. Pensai subito di chiamarla Mimì, come Mimì della Boheme, quella per la quale il geloso Rodolfo canta: Mimì è una civetta, che frascheggia con tutti. Ci vive bene in questa specie di bric à brac, dove ogni cosa del mio lavoro trasmigra dovunque, lo studio è contiguo alla camera da letto dove quadri giornali cornici e libri si confondono con abiti o varie suppellettili: che antipatica parola questa, con tre raddoppi di consonanti. Mimì sa tutto della casa, se vado in qualche stanza poco frequentata me la trovo dietro, come se volesse sapere perchè mi son mosso. Ella domanda con lo sguardo, mi rimprovera se ritardo a darle il pranzo, ha i suoi orari, le sue abitudini. Mi fa capire che è il momento della siesta o del riposo notturno. Insomma, come si dice, le manca la parola. Posso però dire che dialoghiamo, ci intendiamo. Avverte che mi preparo per uscire, mi accompagna alla scodella rossa per i croccantini, mi accompagna al frigo dove conserviamo scatolette pretenziose che indicano cosa ci sarebbe dentro, manzo, o pollo, o tacchino o vitello. Ma io credo che contengono chissà quali poltiglie mischiate. Mimì si sveglia come il legnaiuolo leopardiano, anzi il chiarir dell’alba, se ancora dormo fa in modo che io mi svegli. Ed è ancora buio. Mimì è proprio una civetta.
Non ero qui per parlare di questa mia compagna che è fedele e non dice bugie, è l’unico essere vivente qui d’attorno che non mente come qualche gatta umana a me mentiva. Mimì è leale. Leale come Mimì della Boheme, non è quella cantata “Mimì è una civetta che frascheggia con tutti” come il geloso poeta Rodolfo avvertiva. Non ero qui, dicevo, per parlare di questa nobile altera bestiola classificata come animale da compagnia, e compagnia ella dà, con sincerità e devozione. Ero entrato nella pagina bianca dandomi un tema, un titolo per la giornata che ne indica l’ingresso, è il 21 di marzo mentre abbozzo il mio compito per il giornale. Mi sarebbe piaciuto discorrere d’arte e di primavera, la stagione del Ben venga maggio e il gonfalon selvaggio, immaginarmi la Gioconda di Ponchielli e la Danza delle Ore, del Carro dell’Aurora uno dei soggetti classici per gli incisori di cammei come anch’io ero abbandonando poi il mestiere per una cattedra. Da giovane avevo in casa mia un banco appoggiato a una finestra e lavoravo con amici, quelli che incidevano le Tre Grazie, quando aspettavamo certa musica da una radiolina imperlata come le noste mani e i nostri capelli dalla polvere di cammei. Aspettavamo l’ora di musica lirica, imparando a cantare romanze. per tenori o bassi o baritoni e io imparavo romanze leggere per voce mia, e quelle cantavo, in falsetto, come E’ la solita storia del pastore, il povero ragazzo voleva raccontarla, e s’addormì. Era il lamento di Federico, L’Arlesiana, Cilea. Donato Frulio era baritono, Errico Chiariello era basso, entrò nel coro del San Carlo, un cugino di mia moglie, Franco De Luca, aveva estesa voce di tenore, lirico spinto, giungeva al Do di petto. A una certa svolta della nostra vita ci siamo divisi, allontanandoci come lucenti grida di fuochi in aria, una granata, ognuno il colore suo. Errico lasciò la vita nel 1993, e Franco, che emigrò in Friuli, è finito nel mese scorso in una villa di Cordignano. Non cantiamo più e i capelli non sono più impolverati di conchiglie. Ci siamo dispersi nel tempo. Ma ci ritroviamo, al San Carlo, con Donato e sua moglie Giulia che una volta cantava, e che ora promuove concerti.
Siamo ancora davanti al Bel Canto.
Ciro Adrian Ciavolino
ph Pasquale D’Orsi

Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 30 marzo 2016