ScaleRipa-phD_Orsi_2016

Qualcuno, non ricordo chi, forse un navigante forse no, mi regalò due quadretti rettangolari con vetro bombato. Contenevano farfalle. Merce esotica, il tipico souvenir. Nel quartiere più antico dove da ragazzo vivevo, la casa aveva una loggetta che affacciava su un giardino, era stretta e lunga e parapetto ricoperto con lastre di basalto, vi si adagiavano su quello, come carezze, rami di fico e di melograno. Era spazio comodo a mia madre per stendere biancheria. Faccio sforzo di memoria e trovo una identità di rapporti non ricorrente nella idea generale del rettangolo proporzionato come “sezione aurea” dettato dalle discipline geometriche rinascimentali. Loggetta e souvenir erano di forme avventurose, bislunghe.
Lì ìntorno volavano farfalle.
Le farfalle mi richiamano a Cio-Cio-San, Madama Butterfly, una geisha quindicenne sedotta dal tenente Pinkerton, ufficiale inglese su una nave da guerra a Nagasaki: le cantava “Io t’ho ghermita, di ferro palpitante…”, riferendosi al modo dei collezionisti di catalogare farfalle appuntandole con spille sui supporti. Ma altro ferro trafiggeva il petto della giovane giapponese: Pinkerton era ripartìto senza dare notizia di sé per tre anni,così che cio-Cio-san, temendo di aver perduto per sempre il suo amore, faceva harakiri.proprio mentre l’ufficiale giungeva per farsi perdonare.
Una sera i miei fratelli, mia sorella – c’era molta differenza di età tra me e loro – portarono a casa, tornando dal San Carlo, un piccolo libretto dell’opera. E da quello, oltre che dalla radio, apprendevo e sapevo cantare poi a memoria “Un bel dì vedremo”, tutta per intero, seppure aria di soprano.

Tutto questo girare intorno a vaghezze mie per giungere all’idea di una crisalide che farà nascere, per una vita non lunga, una farfalla, butterfly, per dirla. E a queste metamorfosi vado pensando vedendo i luoghi della mia giovinezza, dove mi ero spostato venendo a Capotorre, quando era quartiere non affollato come ora. Venire dai vicoli della mia adolescenza da queste parti era già un tragitto per un luogo lontano, quasi forestiero, metteva soggezione. Ora, dove qui c’era un giardinetto non praticabile, è stata costruita una fontana. Nel mutamento, che si appella con un antipatica parola, restyling, io mi trovo dentro nuove prospettive, che non giudico qui, non cerco di vederne negative apparenze come taluni fanno, avendo sempre qualcosa da notare, più per diletto di parola che per conoscenza dei fatti. Per contro io guardo alla storia, quella di amministratori ancien régime.poco avvezzi alla bellezza, di vista corta e mente lunga protesa a personali interessi,permettendo, molti anni prima, per dirne una soltanto, anziché difendere le belle opere del passato hanno concesso di abbatterle. Hanno eliminato scale storiche per far passare automobili.

Fontana sì fontana no, non diciamo nulla, non è finita mentre altra notizia di progetto per servire la dea automobile vien proposto per realizzare un parcheggio nel sottosuolo alla fine di Via Comizi verso il mare, laddove un palo per lampione taglia verticalmente in due la vista dal mare che si stende agli occhi nostri sin dalla sommità di Via Salvator Noto, non può più luccicare sul mare l’astro d’argento come si cantava, ma ci siamo forse ispirati ad altro, preso poi a motto, abbiamo anche noi l’ultimo lampione di Fuorigrotta: questa non è luce, è cecità estetica. Ecco, ora spunta una idea-progetto,un parcheggio laddove ci sono resti storici secenteschi, documentati. E buttar giù una scala a tre rampe, progettata da Ignazio di Nardo, l’ingegnere delle tre strade come decumani che sono diventate, dovendone dare un nome, Via Fontana, Via Principal Marina – che ci fu tolta dai Borbone per far passare una ferrovia – e l’altra nell’Ottocento dedicata, dopo la rapina al Regno di Napoli, al solito Garibaldi.



Un poco di Storia dell’Arte l’abbiamo studiata. Dobbiamo distruggere quella scalinata? Essa è un’opera d’arte, grande qualità di ingegneria civile. Essa è stata costruita, adattandola alla balza di lava dell’eruzione del 1794, aprendo Via Fontana.E proprio lì, dove quelle scale capolavoro insistono, sgorgava l’acqua di una fontana pubblica che, sommersa dall’eruzione, fortunatamente non smise di scendere dalle viscere del Vesuvio e fu,sfruttando il declivio della lava di fuoco, costruita quella che vediamo più giù. Con le scale.
Un’idea mi viene: invece di abbattere un monumento, quella scala a tre rampe di antichi gradoni, si faccia ammenda ricostruendo le scale di Vico Bufale, Via Gradoni e Canali, Vico Costantinopoli. Non distruggete l’arte, non distruggete ancora questa città che per due secoli è stata costruita con atto di amore, pregna di bellezza. Fate volare la farfalla del buon gusto.Non infilzate il ferro palpitante, ma di ingiuria, nel cuore di Madama Torre Butterfly. Sarebbe un altro harakiri nel petto di una città già pallida, anemica, così esange.
Ciro Adrian Ciavolino
ph Pasquale D’Orsi

Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 9 marzo 2016