Ritratti-di-Famiglia-900

La famiglia è l’istituzione fondamentale in ogni società umana, f ondata sul matrimonio o la convivenza col carattere della esclusività, della stabilità e della responsabilità attraverso la quale la società stessa s i riproduce e perpetua, sia sul piano biologico, sia su quello culturale. Il termine “famiglia” procede dal latino familia,” gruppo di servi e schiavi, p atrimonio del capo della gens”. Nel significato di familia sono inclusi anche la sposa e i figli del pater familias a cui appartenevano legalmente.
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Per deduzione, la sposa e i figli sarebbero equiparati a servi o schiavi, ma siamo lontani, e a volte no, dalla romana genìa degli avi nostri, appena un paio di millenni. La storia procede per secoli, noi trasciniamo anni-fardelli come viaggiatori alla stazione centrale o all’aeroporto, tirandoci d ietro un trolley. Non siamo diversi da altri, qui sotto casa a passeggio col proprio somigliantissimo cane, e che mi d anno l’idea di altra gens: uomo- animale che sembrano frate e sora. Divago, lo so, annaspo in fantasiose elucubraz ioni molto private. Sarà anche per la presenza nelle mura domestiche di Mimì, la mia dolcissima compagna, sempre c hiusa in casa come una sposa ormai a me appartenente in tutta la sua eleganza e sguardo di ammaliatrice, e mi chiedo se anch’io, come per antico status di servo, o schiavo, non stia finendo per assomigliarle, io a lei, o lei a me. Pur essendo compagna di vita ella però non è, e mai sarà, la mia sposa, né la mia schiava, è soltanto la mia convivente. Anzi è la mia padrona. Mimì non ha grilli per la testa. Ci amiamo. Mimì è la mia gattina. Si chiama così, come Mimì della Bohéme, divenuta amica di Rodolfo che scrittore era, cantava chi son, chi son? Sono un poeta, e cosa faccio? Scrivo,,,e continua narrando che, con tutta la sua povertà, andava scialando da gran signore. Egli sfortunato non godrà molto dell’amorosa storia con la servetta che al buio aveva perduto la chiave. Mimì è molto malata, la povera piccina è condannata, cito canti, e come non vi cade una lacrima a tanto scenica bellezza. A me capita, innamorato delle donne di Puccini sulla scena.

Ora tutto questo arzigogolo del vanesio scrittore di ques ta pagina non scrive come Rodolfo con penna e inchiostro, ma così faceva da ragazzo in una stanza e cucina in Vico del Pozzo numero quattro. Colà vivendo senza un paesaggio parigino, la Ville Lumiére se la figurava, avendo d’attorno amici che sapevano cantar d’opera, ma anche felice per un certo vulcano chiamato Vesuvio che sembrava irrompere nella casa da un balcone aperto sul giardino di donna Sofia disteso sulle rocce del 1794 o altre ancora più antiche. E da quello correvano sulla mia luggetella di pietra rami di melograno e di fico. Era tempo di quando si sentivano uccelli cantare sin dal primo mattino. Era lì la piccola Bohéme. M’accorgo che lo scrittore si sperde però, narrando. p er viuzze laterali, come succedeva percorrendole, vivendo in mezzo a San Gaetano, dove si contano dieci vicoli, ment re qui dovrebbe d’atro scrivere, cioè del progetto famiglia che si va, e non per la prima volta, a combinare non su carta e penna, che pure ogni tanto ruba a questa indecente tastiera di computer. E’ chiaro, a questo ora son passato, con il viatico di una mitica Olivetti Lettera 22, vezzosamente azzurra, amica per tante altre stagioni, ed anni lontani. Ritratti di persone ne ho fatti, con famiglia al seguito, in tempi più recenti, per un paio di annate almeno, su altro foglio. Quando è arrivato il computer, felicemente non sono più costretto a rincorrere la scrittura con ceri nastrini bianchi per rimediare a errori di battitura, ripensamenti, come facevo su quella macchina gelosamente custodita, ora, tra le cose più care della mia vita. A questi ritratti scritti tornerò, cercando di rincorrere piccole e sommesse arti del vivere, o grandi imprese. Tornerò per scolpire facce, mestieri, stor ia e sentimenti di persone che hanno vissuto questo paese con una presenza pregnante, vivace o silenziosa che sia. A pro un laboratorio. Ognuno ha una propria storia da raccontare e la racconta, anche ritrovando le strade percorse d ai propri ascendenti, gli avi e, se può , risalendo alle origini di terra e di mare come sono state le generazioni che hanno lasciato, e che gli ultimi di una famiglia stanno vivendo; andrò a cercare passioni e orgoglio, fatica e progetti, il contorno, il paesaggio nel quale hanno gioito o sofferto, forgiato carattere, e fortune.



Storie che furono e saranno pagine di vita vissuta, un lavoro di tessitura, o di modellazione, combinare un bassorilievo a struttura verticale, come una stele incisa, fatta di testimonianze, anche nella fragilità o nebbia al ricordo, nello sforzo di ritrovare anche memorie di quelli che si ritrovarono sulle rocce di lava ancora calde, decidendo di ricostruire una città per non perdere di vista il mare o il vulcano che in più occasioni fu maligno, per provare le tenacia di questa gens che rifondò i propri campanili, e costruendo ancora i propri velieri, e le case, e le coralline. E i sogni.
Ciro Adrian Ciavolino

Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 22 settembre 2014