A Torre del Greco esistono monumenti che dovrebbe essere motivo di orgoglio cittadino
Con un titolo insolito inizia un mio altrettanto “insolito” contributo al giornale La Torre. Sì, “ce ne stavamo…”. La frase può essere completata in vari modi; con un luogo o, semplicemente, uno stato d’animo. Potrei riferirmi al mio atteggiamento nei confronti della città nativa o, viceversa, all’atteggiamento di uomini e donne di questa terra nei confronti miei o, anche, nei confronti di ciò che rappresenta la storia e la cultura di tutto un popolo. Preferisco lasciarlo in sospeso, anche per non dilungarmi, ma rassicurandovi che non intendo fare San-Pietro-Calastro-Dipinto

alcun tipo di polemica e demandando a ogni lettore il compito di completare il titolo, magari anche con un giudizio a questo modesto contributo.

Non mi presento, ma tengo a chiarire che mi reputo “distante da avvenimenti e movimenti vari” che accadono a Torre del Greco. Certamente, anche con piacere, mi sono perso qualcosa di Torre; ma niente che riguardi ciò che è più nobile ed edificante, riscontrabile nell’arte, nella religiosità e nelle più nobili e antiche tradizioni della nostra Città. Chi mi ha sollecitato a scrivere è stato mosso anch’egli dall’esigenza di ricordare… E cominciamo, allora, con uno dei monumenti che si trova, andando verso Ercolano, alla periferia di Torre: la chiesa di San Pietro a Calastro.

Già nel 1994, per la guida della “Due giorni per Torre” (manifestazione voluta dalla caparbietà e dall’amore di alcuni giovani, snobbati e poi in vario modo emulati), curai la presentazione di questo storico edificio, noto agli studiosi locali e sconosciuto ai più tra i torresi.



Secondo una pia tradizione – che si basa su un antico diploma del notaio Ruggero Pappansogna (1423), perduto nell’originale, che egli diceva dell’età di Costantino (prima metà del IV secolo) – si vuole che la chiesa sia sorta sul luogo dove l’apostolo Pietro, nel recarsi a Roma, sia sbarcato, convertendo col battesimo trecento persone.

Sull’esistenza di tale chiesa, che dà il nome alla località di Calastro (dal greco kalokte: “bella sponda”, come “cala”, o “prospicienza sul mare”), si hanno documenti accertati risalenti ai primi dell’anno 1000; altri ci dicono che, nel 1120, era proprietà di Sergio di Mitro e che, nel 1126, era rovinata e priva del tetto. Tra il 1600 e il 1688 appartenne alla famiglia Raiola. Con decreto del re di Napoli Ferdinando II di Borbone fu concessa, nel 1857, alla famiglia Citarelli. L’ultimo restauro, in cui furono realizzati gli interventi architettonici che oggi vediamo, si deve (come epigrafato in una lapide interna) a Enrico Schiesa e Carmela Riccio che, nel 1945, «vollero riaperto al culto questo sacro antico tempio».

La chiesa, piuttosto piccola, si presenta con l’esterno che risente del gusto tardo ottocentesco. La facciata ricalca lo schema a capanna, terminante con la torretta delle campane. Sulla destra, in un prolungamento della stessa, vi è l’ingresso da cui si accede anche nell’unica cappella della chiesa. La copertura della volta è a botte.

Inserite nell’antico pavimento di cotto si scorgono: al centro una lapide incisa con insegne papali e, su di un lato, un’altra lapide con iscrizione, che rappresenta l’accesso a un luogo per le sepolture.

Sull’altare maggiore era collocato un dipinto su tavola raffigurante San Pietro tra i Santi Vito e Stefano, riportante nella parte bassa la scritta «Stefano Raiola da Ercolano [com’era anticamente chiamata Torre del Greco] a devozione sua e dei suoi quest’opera a proprie spese fece fare. Nell’anno del Signore 1606», mentre a sinistra, nell’angolo opposto alla scritta, c’era la raffigurazione del committente, Stefano Raiola, con abiti dell’epoca.

Nell’unica cappella laterale era custodita un’immagine della Madonna con il Bambino sulle ginocchia, comunemente detta “della Neve”, in verità copia della “Salus populi Romani”, molto venerata dai capitolini e dai Papi (da ultimo Francesco, che vi si è recato all’indomani della sua elezione) nella basilica di S. Maria Maggiore. L’immagine era posta su un altare datato 1844.

La lapide con le insegne papali e le due immagini un uno stesso edificio – la prima raffigurante San Pietro e l’altra la “Salus populi Romani” – non erano, certo, indice della veridicità dello sbarco del Principe degli Apostoli a Torre del Greco, ma rappresentavano certamente un “unicum” nel territorio vesuviano.

Dall’uso dei verbi all’imperfetto il lettore avrà capito che qui si colloca la parte più dolorosa. Sì, il dolore, la rabbia e il rammarico stanno nel grave particolare che i due dipinti sopra descritti sono stati rubati – se non ricordo male nel 1996 – e mai più ritrovati. Io, per mia memoria e diletto, avevo scattato, anni prima, delle foto (discutibili qualitativamente) che oggi rappresentano, purtroppo, una testimonianza di ciò che molti torresi non conoscevano e che quasi certamente non potranno più vedere. Ben volentieri le condivido certo che “Post fata resurgo”. È curioso come una nota enciclopedia libera, descrivendo questo motto, ci ricorda che: “nello stile familiare lo si fa proprio, nello scrivere lettere, chi ha conservato a lungo il silenzio… esordisce Post fata resurgo chi vuol dire “Finalmente mi faccio vivo!””.

Ciro Cipriano

Articolo pubblicato sull’edizione cartacea in edicola il 13 novembre 2013